Edoardo si svezza da solo

Struttura dell’articolo:

  1. Edoardo si svezza da solo
  2. Solo latte per i primi sei mesi
  3. Quando iniziare lo decide lui
  4. Quali cibi offrire
  5. Forma, modalità e quantità
  6. Apprendimento per imitazione
  7. Il contesto familiare
  8. E dopo la prima fase?
  9. Benefici e difficoltà

1. Edoardo si svezza da solo

Abbiamo vissuto lo svezzamento di Edoardo in maniera spontanea, distesa e divertente, e da quel che sento in giro non è cosa da poco.

Forse perché, anziché seguire la ricetta prescritta dalla pediatra come se vi fosse una malattia da curare con le medicine, abbiamo lasciato che Edoardo si avvicinasse al cibo dei grandi secondo i propri tempi.

Forse perché, anziché sprecare soldi e tempo in cibi “fatti apposta per i bambini” e pasti preparati e serviti separatamente, abbiamo sempre condiviso la tavola.

Forse perché, anziché infilargli un cucchiaino di pappa in bocca, abbiamo sempre lasciato che sperimentasse con le mani le consistenze dei vari cibi.

Tutto questo è l’autosvezzamento: un modo di accompagnare il bambino dall’allattamento esclusivo all’alimentazione complementare lasciando che sia lui a decidere se e quanto mangiare; ai genitori spetterà “solo” la responsabilità di cosa mettere in tavola, quando organizzare i pasti e dove.

Ne ho sentito parlare per la prima volta a una mamma conosciuta al corso di accompagnamento alla nascita (una mamma alla seconda esperienza), a riprova dell’importanza delle reti di relazioni tra pari che molte realtà cercano di creare per rendere i genitori di oggi meno soli e più consapevoli.

Incuriosita, ho cercato di approfondire l’argomento. Le mie principali fonti sono state:

  • Il libro “Io mi svezzo da solo!”: dialoghi sullo svezzamento di Lucio Piermarini. Piermarini è il pediatra che ha (re)introdotto l’autosvezzamento in Italia nei primi anni Duemila, chiamandolo “alimentazione complementare a richiesta” (ACR); egli punta sull’abbandono degli schemi fissi e del baby food a favore di un approccio di maggior flessibilità e condivisione.
  • Il libro Baby-led Weaning di Gill Rapley e Tracey Murkett. Le autrici britanniche introducono una modalità di svezzamento a guida del bambino (BLW) simile a quella proposta in Italia ma, per motivi culturali, molto più spinta sull’abbandono del cucchiaino usato per imboccare a favore di un’esperienza più naturale nell’avvicinarsi ai cibi solidi.
  • La rivista UPPA (Un Pediatra Per Amico). E’ un bimestrale a cui mi sono abbonata e che ho scelto perché indipendente (non è finanziato dalle industrie), accurato (gli autori hanno curricula di tutto rispetto – Piermarini è tra questi – e i contenuti pubblicati sono fondati sulla “Medicina Basata sulle Prove”) e piacevole (il linguaggio utilizzato non è troppo tecnico e le illustrazioni sono bellissime).
  • La community di autosvezzamento.it, moderata da Andrea Re. In questo caso non si tratta di un operatore sanitario, ma di un genitore appassionato dell’argomento che apprezzo per il modo in cui approfondisce e divulga argomenti interessanti per i genitori di bimbi piccoli: condivido alcuni dei suoi video nel corso dell’articolo.

Queste letture mi hanno appassionata parecchio e mi hanno convinta a lasciare che Edoardo si svezzasse da solo. Non con un “metodo alternativo” allo svezzamento tradizionale, ma nell’unico modo che ritengo sensato. Per quanto, infatti, non abbia evidenza di linee guida univoche stilate dalle principali organizzazioni che si occupano di sanità alla stregua di quelle diffuse per “rilanciare” l’allattamento al seno, l’autosvezzamento non è altro che la norma biologica, esattamente come lo è l’allattamento rispetto alla nutrizione artificiale. Tutto il resto è lecito, può essere un buon compromesso, una necessità per alcune famiglie… ma è una scelta (o a volte una non-scelta) di intervenire arbitrariamente in un processo fisiologico che la natura ha già previsto come far funzionare, e che nella stragrande maggioranza dei casi funziona benissimo.

Non sono ancora molti i pediatri che hanno abbandonato la tradizionale ricetta a favore di un approccio che è più educativo e incoraggiante nei confronti dei genitori che prescrittivo nei confronti del bambino. Sempre dal gruppo del corso di accompagnamento alla nascita, ho scoperto che a Novara, al momento, solo una pediatra di base propone l’autosvezzamento, e siamo riusciti a ottenerla quando Edoardo aveva già nove mesi; significa che abbiamo affrontato l’inizio dello svezzamento in piena autonomia e sicuri delle nostre competenze genitoriali e delle competenze di Edoardo nell’imparare a mangiare, stralciando il foglietto con i classici schemini fornitoci della pediatra precedente. Questo non per sfiducia nei confronti della medicina tradizionale, ma semplicemente perché non è il pediatra la figura di riferimento per lo svezzamento: primo perché il pediatra non è esperto di alimentazione, secondo perché lo svezzamento non è una patologia. Ecco perché si stanno diffondendo corsi tenuti da nutrizioniste (ne ho consultata una per avere conferme e approfondire alcuni aspetti) e ostetriche (la mia è bravissima, ma l’ho conosciuta solo alla seconda gravidanza!).

Edoardo oggi ha tre anni ed è un bambino che mangia in maniera varia e autonoma. Non vediamo l’ora di ripetere l’esperienza con Carola: siamo sicuri che sarà altrettanto spontanea, distesa e divertente per quanto probabilmente diversa dalla prima… l’autosvezzamento è anche questo: rispetto dell’individualità di ogni bambino!

Molte neomamme, tra amiche e conoscenti, sono rimaste incuriosite dalle foto e dai video di Edoardo pubblicati su Facebook e mi hanno chiesto come ho fatto nella pratica. Oltre a consigliare le letture di cui sopra, ho pensato di riassumere i concetti assimilati e l’esperienza fatta.


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2. Solo latte per i primi sei mesi

Edoardo è stato allattato in maniera esclusiva fino a 6 mesi e in maniera complementare fino a 2 anni e 7 mesi

L’autosvezzamento, per definizione, non impone un’epoca precisa in cui iniziare a proporre al bambino cibi diversi dal latte. Una volta in grado di stare seduto da solo, può essere messo a tavola e sarà lui stesso a decidere quando iniziare ad assaggiare. In genere, questo avviene intorno ai sei mesi, ma potrebbe accadere qualche settimana prima o addirittura qualche mese dopo. Poiché la tendenza negli ultimi decenni è stata quella di anticipare l’inizio dello svezzamento su scelta del genitore (o del pediatra), sia Piermarini che Rapley e Murkett stressano il fatto che non c’è alcuna fretta, perché il fabbisogno nutrizionale è ampiamente coperto dal latte almeno per i primi sei mesi di vita.

Piermarini, in particolare, fa notare come le raccomandazioni sull’inizio dello svezzamento siano passate dai tre mesi del pediatra della nonna ai sei mesi attuali grazie alla grande quantità di conoscenze creatasi intorno alla composizione del latte umano e alla qualità della crescita dei bambini allattati esclusivamente al seno. Questo ha portato l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a raccomandare per tutti i bambini un’alimentazione esclusiva al seno per almeno i primi sei mesi di vita. “Almeno” significa che quello dei sei mesi è un limite inferiore conservativo, che tiene conto di bambini con problemi per i quali potrebbero essere necessarie integrazioni; in condizioni normali, il piccolo può continuare a prendere il solo latte materno anche per sette o otto mesi senza avere carenze. Anche nel caso in cui il bambino venga nutrito artificialmente, l’utilizzo delle formule alimentari sostitutive del latte umano è allo stesso modo consigliato almeno fino ai sei mesi senza l’introduzione di altri cibi. Questa lettura avrebbe magari potuto rassicurare una mamma, conosciuta durante l’inserimento al nido di Edoardo, preoccupata che il proprio figlio di neanche sei mesi non mangiasse la quantità di carne consigliata come se dovesse avere degli scompensi da lì a breve…

Rapley e Murkett rafforzano il concetto riassumendo in tre punti perché dare cibo diverso dal latte prima dei sei mesi non fa bene:

  • I piccoli hanno stomaci minuscoli e hanno bisogno di una fonte di calorie ed elementi nutritivi concentrata e facilmente digeribile: solo il latte risponde a questi requisiti, materno o artificiale che sia.
  • Il sistema digerente del bambino non è in grado di assimilare dai cibi solidi tutti gli elementi positivi per la salute; essi non forniranno dunque il nutrimento adeguato, perché si sostituiscono a dosi più o meno elevate di latte (e questo vale anche per l’acqua!).
  • I bambini ai quali viene dato cibo diverso dal latte troppo presto contraggono più infezioni e sono maggiormente a rischio di sviluppare allergie, perché il loro sistema immunitario è ancora immaturo; inoltre, hanno un maggior rischio di sviluppare problemi cardiaci e aumento della pressione sanguigna in futuro.

Le autrici specificano poi come l’allattamento al seno giochi un ruolo specifico nella preparazione del bambino ai cibi solidi, perché:

  • I bambini allattati al seno si nutrono da soli succhiando il latte: una volta vicini al seno, si infilano il capezzolo in bocca e lo lasciano quando non hanno più fame; i bimbi nutriti con il biberon, invece, attendono che la mamma metta loro la tettarella in bocca e si aspettano che gliela tenga finché non hanno finito.
  • I bambini allattati al seno hanno sempre il controllo: possono variare la velocità della poppata e la quantità di latte che succhiano a seconda della fame/sete che hanno; al contrario, la velocità della poppata al biberon è determinata principalmente dalle dimensioni del buco della tettarella e la quantità può essere aumentata, ad esempio agitando la tettarella in bocca e inducendo così il bambino a succhiare più di quanto farebbe naturalmente.
  • I bambini allattati al seno utilizzano i muscoli della bocca in modo diverso dai bambini che bevono dal biberon: i primi compiono movimenti più simili a quelli utilizzati per la masticazione, i secondi compiono movimenti più simili a quelli utilizzati per succhiare da una cannuccia.
  • Il sapore del latte materno varia di poppata in poppata, a seconda di quello che ha mangiato la madre, quindi il bambino allattato si abitua a una varietà di sapori sin dall’inizio (per questo è inutile e controproducente sconsigliare alle mamme che allattano di rinunciare a qualsivoglia alimento faccia parte normalmente della loro dieta, a meno che sia non salutare); il bambino nutrito col latte artificiale, invece, sperimenta un solo sapore per cui potrebbe essere più riluttante a provarne di nuovi.

Questo non significa che l’autosvezzamento sia un processo difficile per i bambini nutriti con il latte artificiale, bisogna però tener presente che potrebbero impiegare un po’ di più a diventare audaci come gli altri. Anzi, l’inizio dello svezzamento con i cibi solidi potrebbe essere il momento perfetto per cedere il controllo e permettere al bambino di sviluppare il proprio istinto naturale a mangiare.

L’autosvezzamento, essendo un processo fisiologico, si applica a tutti i bambini purché non ci siano problemi nello sviluppo: ritardi, debolezze muscolari o deformità fisiche possono rendere necessaria la guida da parte dei genitori. Particolare attenzione va riservata anche ai bambini nati prematuri, perché il loro livello di sviluppo (interesse nei confronti del cibo e capacità di portarselo alla bocca) potrebbe essere in ritardo rispetto al fabbisogno di elementi nutritivi addizionali (che invece sopraggiunge perché non avranno trascorso abbastanza tempo nell’utero per accumulare riserve sufficienti). Ovviamente tutti questi casi vanno trattati singolarmente con la consulenza di uno specialista.

“Questo modo di alimentare ed educare un lattante ai cibi solidi si chiama autosvezzamento e rappresenta una forma di alimentazione complementare perché l’allattamento rimane predominante ancora per alcuni mesi. Mano a mano che aumenterà l’assunzione di cibo, automaticamente Lisa ridurrà la richiesta di poppare e il seno si adeguerà riducendo la sua produzione; verrà il giorno in cui non mostrerà più interesse per il seno della mamma e preferirà sgranocchiare una mela. Per il momento però il seno è ancora la sua ancora di salvezza.”

A. Volta, Mi è nato un papà


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3. Quando iniziare lo decide lui

Piermarini sottolinea che, oltre al fatto che il latte umano è adeguato a coprire tutte le esigenze del bambino almeno fino ai sei mesi, questa età viene indicata come quella idonea per l’inizio dello svezzamento perché normalmente, prima, i bambini non sono in grado di assumere cibi diversi dal latte correttamente. Questo perché devono scomparire alcuni riflessi, in particolare il riflesso di estrusione, il quale fa sì che il bambino spinga fuori con la lingua tutto quello che non è liquido.

“Insomma tutto si svolge come se qualcuno avesse disposto le cose in modo che, quando compaia il bisogno di integrazione del latte materno, il bambino sia maturo per assumere agevolmente e senza rischi alimenti diversi dal latte.”

L. Piermarini, “Io mi svezzo da solo!”: dialoghi sullo svezzamento

Anche Rapley e Murkett mettono in guardia dai falsi segnali di predisposizione al cibo che nel corso degli anni sono stati indicati ai genitori ma che in realtà fanno solo parte del normale sviluppo che avviene col passare dei mesi:

  • svegliarsi di notte
  • leggero rallentamento nell’aumento di peso
  • guardare i genitori mangiare
  • far schioccare le labbra
  • non addormentarsi subito dopo l’allattamento
  • presunto sotto o sovra-sviluppo

Invece, il modo più affidabile per capire se il bambino sia pronto per gli alimenti diversi dal latte è intercettare i cambiamenti che gli permetteranno di gestire la nuova alimentazione: riuscire a stare seduto da solo, allungarsi per afferrare le cose e portarsele alla bocca in modo rapido e preciso, mordicchiare i giocattoli fingendo di masticare. Ma il segnale migliore di predisposizione si ha quando il bambino inizia a mettersi da solo il cibo in bocca, cosa che tuttavia può fare solo se gli viene concessa l’opportunità.

Le autrici, infatti, suggeriscono di non introdurre arbitrariamente del cibo in bocca al bambino con il cucchiaino; non perché il cucchiaino sia di per sé negativo, ma perché imboccare il bambino non è necessario e potrebbe portare ad alcuni problemi:

  • Quando si sceglie di affidarsi al cucchiaino, tipicamente si riduce il cibo in pappa, in modo che il bambino non lo debba masticare. Ma, se al bambino non viene data la possibilità di fare esperimenti con la masticazione una volta raggiunti i sei mesi di vita, lo sviluppo di questa capacità potrebbe risultarne ritardato, anche perché a essa sono legati lo sviluppo della parola, della digestione, dell’alimentazione sicura. Aspettare l’anno o più non riduce i rischi: è come impedire a un bambino di camminare fino ai tre anni per paura che si faccia male.
  • I bambini imparano a gestire meglio e più rapidamente i pezzi di cibo se viene data loro la possibilità di mangiare da soli, perché trovano più facile masticare l’alimento quando se lo mettono nella parte anteriore della bocca; il cibo somministrato con il cucchiaino tende a essere succhiato direttamente sul fondo della bocca, da dove poi non è facile gestirlo bene e in sicurezza.
  • Essere nutrito da qualcun altro col cucchiaino fa sì che il bambino non controlli la quantità di cibo che mangia, né la frequenza dei bocconi; il cibo in purea, in particolare, viene inghiottito velocemente per cui si rischia che il bambino butti giù più di quello che gli serve e questo interferisce con la sua innata abilità a percepire il senso di sazietà e fa sì che si riduca la richiesta di latte (che invece dovrebbe rimanere la fonte di nutrimento principale per un bambino sotto l’anno).
  • Essere nutrito con il cucchiaino non permette al bambino di esplorare e sperimentare, dunque imparare; lasciare che si nutra da solo rende il momento del pasto più divertente per lui e lo incoraggia a fidarsi del cibo, aumentando la probabilità che da grande ami una varietà più ampia di gusti e consistenze.

Questo non significa che il cucchiaino non possa mai essere utilizzato dal genitore, in particolare per i cibi difficilmente afferrabili con le mani e soprattutto all’inizio: un buon compromesso è quello di porgerlo al bambino lasciando che sia lui a introdurlo in bocca, se lo vuole. L’idea, dunque, è quella “offrire” e non “dare” il cibo al bambino: una volta messo a portata di mano, sarà lui a decidere cosa farne.

Edoardo, a 7 mesi, mangia la quinoa con verdure che il papà gli offre con la forchettina

Poiché inizialmente la motivazione che spinge un bambino a mettersi in bocca del cibo è la curiosità e la volontà di copiare gli altri, e dunque per i primi due mesi circa di svezzamento il cibo solido è più che altro un mezzo di apprendimento, Rapley e Murkett consigliano di offrire al bambino cibi solidi quando è sereno e non affamato (a differenza dello svezzamento tradizionale in cui si consiglia di evitare le poppate in prossimità dei pasti per assicurarsi che il bambino abbia fame).


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4. Quali cibi offrire

Piermarini osserva come, nonostante il mercato promuova la vendita di alimenti speciali per l’infanzia a partire dai quattro mesi di età (limite inferiore imposto per legge), il bambino non ha bisogno di alimenti particolari né prima dei sei mesi (il latte è sufficiente) né dopo.

Innanzi tutto, questi alimenti speciali sono prodotti con gli stessi ingredienti quotidianamente utilizzati nelle preparazioni domestiche; la differenza non può essere la sicurezza igienica, perché essa deve essere garantita per qualunque alimento messo in vendita.

“Tutti gli alimenti industriali per l’infanzia, dalle formule utilizzate come sostituti del latte materno alle merendine, sono ultraprocessati […]. Il loro uso dovrebbe essere evitato, o ridotto al minimo. Esistono ottime alternative: il latte materno, ovviamente (seguendo le indicazioni internazionali e nazionali), e, a partire dai 6 mesi circa, quando il bambino è pronto per altri cibi e fa capire di averne voglia, l’alimentazione sana della famiglia. Ma la pubblicità, e la conseguente pressione a favore dei cibi ultraprocessati, purtroppo esercitata talvolta anche da alcuni pediatri, è incalzante. […] Punta su convenienza, sicurezza e salute, usando argomenti falsi, parziali o distorti.”

A. Cattaneo, Cibi ultraprocessati e pubblicità: impariamo a difenderci, UPPA n° 1/2020

Neanche l’omogeneizzazione o la liofilizzazione possono essere motivazioni valide per l’utilizzo di alimenti speciali, in quanto la ricerca scientifica ha messo in evidenza come – se lo svezzamento viene fatto all’epoca corretta – i bambini hanno un apparato gastrointestinale in grado di digerire tutti gli alimenti che assume un adulto; omogeneizzati e liofilizzati, tra l’altro, sono un fenomeno tutto italiano. Bisogna piuttosto considerare che il cibo in purea, specialmente la frutta e la verdura, può essere ormai privo di alcuni elementi nutritivi, ad esempio impoverito di vitamina D rispetto alla sua forma solida.

Rapley e Murkett aggiungono che nemmeno l’assenza di denti è una motivazione valida per non dare il cibo dei grandi, perché i bambini utilizzano le gengive. Ricordo che una volta lasciai a Edoardo, che era seduto sul seggiolino durante un breve tragitto in macchina, una bottiglietta di plastica con cui giocare e, quando andai a slacciarlo, notai che l’aveva mordicchiata al punto che l’acqua zampillava da più buchi, che Edoardo aveva fatto pur senza avere nemmeno un dente!

Edoardo a 6 mesi: niente denti e una grande passione per i pomodori

Gli alimenti speciali sono figli proprio proprio di quella politica di anticipazione dell’epoca di svezzamento a un’età in cui l’intestino non è maturo: essi offrivano un risultato nutrizionale accettabile con il minimo rischio di disturbi; stesso motivo per il quale si andava molto cauti con l’introduzione di nuovi alimenti, monitorando costantemente l’efficienza della digestione e l’eventuale comparsa di reazioni allergiche. In questo modo lo svezzamento, gestito per secoli in maniera naturale dalla famiglia, diventava un fatto tecnico che richiedeva l’intervento del medico. Ma non si è mai effettuata una sperimentazione appropriata che dimostrasse l’innocuità e i vantaggi di un così radicale cambiamento. La certezza che i lattanti svezzati (nell’epoca corretta) con alimenti preparati in casa crescono altrettanto bene rispetti ai lattanti svezzati con i prodotti dell’industria specializzata è stata invece acquisita attraverso esperienze concrete, condotte da ricercatori affidabili senza conflitti di interesse e pubblicate su riviste scientifiche serie.

Insomma, in realtà sono veramente pochi i cibi consumati dagli adulti che bisogna evitare di far mangiare a un bambino piccolo:

  • miele: meglio offrirlo dopo i 12 mesi, perché è una potenziale fonte di botulismo;
  • latte animale: va bene usarlo come ingrediente ma, data la sua composizione, non può sostituire il latte materno (o artificiale) prima dei 12 mesi;
  • caffè, tè e Coca-Cola: da evitare soprattutto per la presenza di caffeina;
  • altri prodotti il cui consumo dovrebbe essere limitato anche per gli adulti: zucchero (non serve proibire al bambino l’occasionale dolce, l’importante è che non rappresenti un’abitudine); bevande dolcificate, gasate e succhi di frutta; additivi, dolcificanti e conservanti (meno sono gli ingredienti elencati nella tabella nutrizionale, meglio è).

Ci sono invece tanti luoghi comuni da sfatare sugli alimenti che si ritiene debbano essere evitati.

Una delle obiezioni che le mamme con cui mi sono ritrovata a parlare di autosvezzamento hanno mosso è la presenza di sale nelle preparazioni per adulti. Piermarini, a questo proposito, ricorda come non sia necessario eliminare del tutto il sale: è sufficiente un po’ di moderazione nel suo utilizzo, che vale per i bambini quanto per gli adulti. Una soluzione per tutta la famiglia potrebbe essere quella di preparare i cibi in casa provando a insaporirli con meno sale e più erbe e spezie. Anche perché che senso avrebbe far mangiare al bambino cibi totalmente insipidi durante lo svezzamento per poi farlo passare a un’alimentazione familiare ricca di sale?

Un’altra obiezione che si sente spesso riguarda il glutine. Questa proteina è stata per un certo periodo esaltata al punto da portare all’affermazione della “pasta glutinata”; poi, quando è emerso che una persona su cento è affetta da caliachia, è diventata un mostro da combattere e si è cercato di ritardarne l’introduzione nel processo di svezzamento. Questa però è una pratica inutile, in quanto il glutine scatena la celiachia solo in soggetti geneticamente predisposti e lo fa indipendentemente dal momento della sua introduzione. Anzi, poiché la celiachia si riconosce meglio quando si manifesta nel bambino più piccolo, prima si dà, prima si fa la diagnosi, prima si inizia la cura, ovvero l’eliminazione totale e definitiva del glutine dalla dieta.

Per quanto riguarda la prevenzione delle allergie, infine, c’è un consenso pressoché unanime delle più importanti società e accademie scientifiche e pediatriche sull’inutilità, se lo si fa a sei mesi di età circa, di un’introduzione graduale e dilazionata dei vari alimenti che costituiscono una dieta normale. Un atteggiamento diverso è giustificato soltanto nel caso si sappia già che il bambino è allergico o affetto da dermatite atopica. Anche perché, nei soggetti predisposti alle allergie, è l’introduzione continuativa di un alimento che porta alla sua tolleranza, mentre una sua lunga sospensione può favorire reazioni gravi al momento del successivo contatto. La lista degli alimenti inoltre è lunghissima e il rischio si azzererebbe solo evitando proprio lo svezzamento. Quello che veramente aiuta è invece aspettare il momento giusto e promuovere l’allattamento materno, che favorisce lo sviluppo delle funzioni intestinali.


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5. Forma…

Appurato che possiamo lasciar mangiare a un bambino di sei mesi (quasi) qualsiasi cosa riesca a prendere dal piatto, è importante considerare anche la forma del cibo, per rendere più semplice e sicuro il modo in cui lo maneggia e lo porta alla bocca. Molti cibi che vengono considerati inadatti ai bambini, infatti, sono in realtà cibi che vanno benissimo ma la cui presentazione va adeguata: la frutta secca va tritata, le ciliegie vanno offerte senza nocciolo, i frutti rotondi come l’uva vanno tagliati a metà, il pesce va privato delle lische, la carne della cartilagine e così via.

E’ poi importante considerare le abilità dei bambini nelle varie tappe dello sviluppo.

Poiché i bambini di sei mesi di solito usano tutta la mano per afferrare le cose, un ottimo modo per proporre il cibo all’inizio è quello di tagliarlo a bastoncini, in modo che una parte funga da impugnatura e l’altra parte possa essere mangiata. I broccoli, ad esempio, si prestano benissimo a questo tipo di esercizio. Edoardo faceva così anche con la pasta: i primi tempi, mangiava la parte che sbucava fuori dal pugnetto e buttava il resto!

Edoardo a 7 mesi: afferra le penne con tutta la mano e mangia la parte che sbuca dal pugnetto

Intorno al nono mese, i bambini sviluppano la presa a pinza, riuscendo ad afferrare tra pollice e indice alimenti piccoli come ad esempio i piselli. Riescono anche a “inzuppare” un cibo in un altro, perciò gli si potrà offrire hummus, yogurt o altre salse da mangiare con un bastoncino di pane o con le dita (mentre, finché non è in grado di farlo, le salse possono essere offerte porgendo il pane già inzuppato o un cucchiaio da leccare).

…modalità…

Molti bambini iniziano a usare le posate intorno all’anno d’età. Non è un passaggio da imporre e non c’è da spiegar loro alcunché: sarà sufficiente metterle a disposizione e, per imitazione, vorranno provare a usarle e piano piano diventeranno abili nel farlo; è importante dunque dare il buon esempio.

Quando il bambino inizia a sedere a tavola con la famiglia, è una buona idea predisporre per lui anche un bicchiere con l’acqua. Non è necessario che abbia il beccuccio, perché a sei mesi il piccolo sta già maturando le competenze necessarie per esercitarsi nel bere; è sufficiente che sia di una dimensione adatta. Inizialmente ci saranno piccoli pasticci dovuti sia alla necessità di capire come si beve, sia al fatto che il bambino è affascinato da tutte le cose che si possono fare con l’acqua (non sarà insolito vedere cibi galleggiare nel suo bicchiere senza che egli se ne preoccupi…): si tratta tuttavia di una fase passeggera.

Sia le posate sia i bicchieri che offriamo ai bambini dovrebbero essere più piccoli di quelli che usano gli adulti, ma non “fatti apposta per”; l’autosvezzamento non richiede infatti attrezzature particolari.

Nenche il seggiolone è strettamente necessario, visto che le nostre nonne facevano sedere i bambini direttamente sulle proprie gambe, ma è molto utile. Noi abbiamo iniziato con un modello Peg Perego (a cui abbiamo dovuto aggiungere dei cuscini per far raggiungere a Edoardo l’altezza giusta) che era stato dei nostri nipoti: molto comodo per la presenza del vassoio su cui offrire direttamente il cibo, ma scomodo per l’imbottitura che rende difficile la pulizia. In seguito, abbiamo utilizzato un buono regalo per acquistare un modello Inglesina da attaccare al tavolo, in modo da poterlo portare in giro agevolmente, e ben presto abbiamo sostituito il precedente anche per i pasti in casa perché in questo modo Edoardo poteva più facilmente sentirsi parte della tavolata.

[Edit 2021: Edoardo e Carola hanno ereditato dai cugini di Leonardo due bellissime sedie in legno della Stokke la cui altezza può essere adattata con la crescita; questa marca è molto costosa, ma se la si recupera di seconda mano o si trova un analogo low cost… direi che è un’ottima soluzione!]

…e quantità

L’ideale sarebbe offrire al bambino una piccola varietà di cibi; non uno, perché all’inizio il cibo è usato soprattutto per giocare e apprendere e probabilmente il bambino si annoierebbe troppo presto, ma neanche più di tre o quattro, perché una scelta troppo ampia potrebbe sopraffarlo.

Partendo con piccole quantità, ci si può regolare su quanto cibo il bambino è in grado di gestire; man mano, la quantità di cibo “buttato” diminuirà rispetto alla quantità di cibo mangiato. Ma dosare la quantità osservando il bambino non significa decidere quanto fargli mangiare: è importante infatti non indurlo a ingerire più di quanto egli non desideri. Molti di noi sono cresciuti con l’idea che si debba finire quello che si ha nel piatto perché non è bello sprecare il cibo; ma questo non può valere per i bambini, che dovrebbero poter mangiare la quantità che desiderano. Partire con piccole quantità, integrando solo se il bambino mostra di desiderare altro, permette proprio di evitare di sprecare troppo cibo e avere la sensazione che “non abbia mangiato niente”.

E’ importante poi ricordare che se un bambino rifiuta un determinato alimento è perché non ne ha bisogno (o non lo vuole) in quel momento preciso; questo non significa che non lo mangerà mai se gli viene riproposto.

“Numerosi studi hanno messo in evidenza che verdure o frutti inizialmente rifiutati saranno assaggiati e poi mangiati se il genitore continua a offrirli a tavola o se saranno regolarmente presenti nel menu dell’asilo nido. […] E’ un errore evitare di riproporre un alimento non gradito al bambino dopo solo una o due offerte, così come bisogna evitare di insistere e forzarlo. […] Un genitore che ha un comportamento intrusivo a tavola ottiene il risultato opposto a quello sperato: più cibo che rimane nel piatto e una cattiva esperienza familiare.”

C. Panza, Frutta e verdura? Mai scoraggiarsi al primo rifiuto , UPPA n° 4/2018


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6. Apprendimento per imitazione

Piermarini spiega che tutti i lattanti, proprio intorno ai sei mesi, oltre a maturare le varie competenze motorie e digestive necessarie all’introduzione dei cibi solidi, cominciano a presentare un’insaziabile curiosità e un comportamento imitativo sempre più vivace. È la natura, dunque, che decide il momento ideale: se si va a vedere quale fosse l’epoca di svezzamento nelle popolazioni non industriali, si scopre che mediamente i bambini venivano svezzati proprio tra i cinque e i sei mesi. Più liberamente il bambino sperimenterà, minore sarà la probabilità di avere problemi dopo. Non va privilegiato alcun alimento in particolare (nemmeno quando il bambino dimostra di preferirlo) e, coerentemente, gli assaggi potranno avvenire in qualunque posto ci si trovi e non solo a casa.

Edoardo a 8 mesi, alla festa di San Martino: assaggia serenamente il menù salentino come se fosse a casa

Mentre tutto questo avviene, il bambino continua a prendere tranquillamente il suo latte, anche subito prima o subito dopo i pasti: nei primi tempi non cambierà nulla, poi, man mano che gli assaggi aumentano di consistenza, diminuirà la quantità di latte succhiato. L’allattamento al seno non rappresenta un freno ai cambiamenti in atto, anzi, proprio per la sua maggiore praticità e connotazione affettiva, va assecondato e sostenuto, senza mettere fretta a un processo comunque inesorabile. Lo svezzamento, dunque, non è un cambiamento da programmare con precisione, ma una fase di sviluppo obbligata: il bambino si svezza semplicemente perché non può farne a meno, glielo impone la legge della natura.

L’istinto lo porta a compiere delle azioni che innescano nei genitori una risposta altrettanto istintiva (e adeguata); o per lo meno, questa veniva messa in atto fino a prima della medicalizzazione dello svezzamento: i nostri antenati, infatti, hanno sempre risposto naturalmente ai segnali incontrovertibili che venivano dai bambini e, nei limiti della disponibilità materiale e delle tradizioni popolari, hanno offerto loro quello che avevano in tavola.

È stato proprio lo spostamento in avanti del periodo consigliato per lo svezzamento a permettere di ricominciare a notare quei comportamenti che venivano prima interpretati come un capriccio. Il bambino, in realtà, non è un “furbone matricolato” pronto a creare difficoltà a coloro da cui dipende per la sua sopravvivenza. Egli si plasma docilmente e inconsapevolmente sui suoi genitori: il suo interesse per il loro cibo è proprio, inizialmente, interesse per quello che loro fanno.

Rapley e Murkett, infatti, fanno notare come spesso il bambino preferisce assaggiare quello che sta nel piatto di mamma e papà, anche se è esattamente la stessa cosa che sta nel suo: questo è probabilmente il suo modo di controllare che il cibo sia sicuro. Edoardo, per esempio, è stimolato tantissimo ad assaggiare cose nuove quando il papà lo stuzzica con frasi tipo “mica mi vorrai rubare quello che ho nel piatto!”.

Proprio perché il bambino apprende per imitazione, quando ci si riferisce ai cibi, è molto utile chiamarli per nome e descriverli, invece che parlare genericamente di “pappa”: questo lo aiuterà a imparare nuove parole mentre sviluppa nuove abilità. Edoardo ha maturato un linguaggio talmente ricco in questo senso tanto da stupirmi quando, intorno ai due anni, è riuscito a riconoscere buona parte degli ingredienti di un biscotto che stava mangiando: farina, zucchero, limone… Uno dei suoi giochi preferiti in spiaggia, poi, era fare torte di sabbia in cui, a turno, lui e papà/mamma inserivano palettate facendo finta che fossero ingredienti di volta in volta nuovi: l’elenco nominato era veramente inesauribile.

Poiché il bambino guarda i genitori e cerca di riprodurne le azioni, è importante lasciare che trovi un modo per gestire il cibo senza dargli più aiuto di quello di cui ha davvero bisogno. Interferire potrebbe spingerlo a smettere di provare oppure potrebbe distrarlo. Questa è una cosa su cui ho sempre puntato molto, anche a volte frenando il papà, perché penso sia quel tipo di agevolazione all’autonomia “sano”, molto diverso ad esempio dal “mi rifiuto di farti entrare nel lettone perché devi imparare a dormire da solo”: finché il bambino è felice di fare da sé va in tutti i modi assecondato, mentre se avrà bisogno di una mano lo farà capire e andrà aiutato.

“La madre che imbocca il bambino senza compiere il minimo sforzo per insegnargli a tenere il cucchiaio e cercare la sua bocca, o che almeno non mangia ella stessa invitandolo a guardare come fa, non è una buona madre. Ella offende la dignità umana di suo figlio, lo tratta come un fantoccio, mentre è un uomo dalla Natura affidato alle sue cure. Chi non comprende che insegnare a un bambino a mangiare, a lavarsi, a vestirsi, è lavoro ben più lungo, difficile e paziente che imboccarlo, lavarlo, vestirlo? Il primo è lavoro dell’educatore: il secondo è il lavoro inferiore e facile del servo […] Tutto quanto è aiuto inutile, è impedimento allo sviluppo delle forze naturali.”

M. Montessori, Educare alla libertà

Il comportamento imitativo riguarda anche i modi di stare a tavola. Non c’è da temere che un bambino a cui viene concesso di sperimentare non impari “le buone maniere”, anzi succede più spesso il contrario. E’ importante che i genitori mangino insieme a lui più spesso possibile e che siano un buon modello: non possiamo aspettarci che, se il bambino ci vede mangiare a casa le patatine con le mani, al ristorante utilizzi le posate per quello stesso cibo.


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7. Il contesto familiare

L’autosvezzamento, proprio perché non segue regole imposte da terzi, potrà avvenire in maniera diversa tenendo conto delle peculiarità del bambino e del contesto familiare: i genitori hanno tutte le competenze per gestire questo passaggio fisiologico senza ingerenze.

Piermarini rassicura ad esempio sul fatto che, almeno per i bambini, che dalla nascita poppano tranquillamente a qualunque ora del giorno e della notte, si possono eliminare problemi di orario: l’indicazione della prima pappa proprio a mezzogiorno è solo un’imposizione che non ha alcuna giustificazione scientifica.

Invece, se aspettiamo l’iniziativa del bambino e lasciamo che sia lui il vero protagonista del passaggio all’alimentazione solida, non avremo imposto nulla e questo sarà una sua libera scelta. Non ci sarà alcuno stacco o decisione sofferta, perché il bambino imparerà ad apprezzare e a chiedere sempre di più il cibo senza pensare che questo comporti l’abbandono delle poppate: si passa con logica coerenza dal latte a richiesta ai cibi nuovi a richiesta. Del resto, quello del bambino non è un comportamento dissimile da quello dell’adulto: anche noi pretendiamo rispetto per le nostre scelte alimentari, non tolleriamo insistenze e costrizioni, e (a meno di prescrizioni mediche) siamo disposti ad apportare cambiamenti nella nostra dieta solo se c’è una motivazione interiore, sia essa curiosità o imitazione di persone di cui ci fidiamo.

E sono proprio i genitori le persone di cui il bambino si fida di più, naturalmente. A ragion veduta, visto che essi sono dotati della capacità di rispondere alle sue esigenze in maniera istintiva. Il problema sorge proprio quando viene meno la “naturalità”. Negli ultimi decenni infatti, nel legittimo sforzo di eliminare, alla luce del progresso, quanto di sbagliato ci fosse nella tradizione popolare, non si è prestata sufficiente attenzione a quanto di buono effettivamente c’era, considerandolo obsoleto e superato. Ma, se si fa piazza pulita anche dell’istinto dei genitori (in questo caso di nutrire naturalmente il proprio bambino), ecco che essi non sanno più bene cosa fare, il bambino non si fida più e cominciano appunto i problemi.

“L’alimentazione responsiva (cioè in grado di rispondere ai bisogni del bambino) indica l’insieme di risposte pronte e appropriate da parte del genitore ai segnali di fame e sazietà del bambino. Spesso i genitori hanno bisogno di acquisire maggiore fiducia nella capacità del loro bambino di sapersi regolare da sé su quanto e se mangiare, ed é utile sostenerli nel promuovere un approccio all’alimentazione che risponda ai reali bisogni del bambino.”

M. Iaia, L’alimentazione che risponde ai bisogni del bambino, UPPA n° 2/2018

Anche il momento del rientro a lavoro varia a seconda del contesto e ogni famiglia troverà la soluzione migliore per il proprio caso, condividendo le scelte sull’educazione alimentare con chi si prenderà cura del bambino.

Anche se alcune mamme scelgono di farlo, il rientro al lavoro non implica necessariamente l’interruzione dell’allattamento. I bambini sanno essere molto flessibili: meglio ricevere il latte di mamma solo al mattino e alla sera piuttosto che esserne privati anzi tempo. Io sono stata molto fortunata, perché sono rientrata a lavoro quando Edoardo aveva dieci mesi e, fino ai suoi dodici, sono stata operativa per sei ore al giorno anziché otto; questo significava comunque stare separati per nove ore di fila, ma non ci ha impedito di proseguire con l’allattamento fino a due anni e sette mesi, con ritmi diversi e poppate gradualmente più diradate, dall’attaccamento frenetico una volta rientrata a casa alla ciucciatina serale per addormentarsi.

Edoardo, a 2 anni, ciuccia mentre io mi preparo per andare a lavoro

Se si decide di interrompere l’allattamento o il bambino viene già nutrito artificialmente, è sempre meglio chiedere a chi si prenderà cura di lui di somministrargli del latte artificiale/vaccino piuttosto che anticipare lo svezzamento in maniera forzata. E’ una cosa che vedo fare molto spesso. Ne ho parlato di recente con un collega che ha voluto iniziare intorno ai quattro mesi per fare in modo che il figlio, il quale sarebbe stato inserito all’asilo nido a otto mesi, arrivasse già “svezzato”. E con un’altra conoscente che ha scelto di iniziare alla stessa epoca perché il bambino sembrava pronto e i sei mesi cadevano mentre erano in vacanza; la presunzione che il proprio figlio sia pronto prima degli altri è spesso una errata interpretazione dei suoi comportamenti, e ho potuto notare che molti pediatri non aiutano ma anzi incoraggiano questa anticipazione immotivata. Anche in questo caso mi ritengo fortunata, perché ho incontrato un’educatrice molto aperta ad accogliere le mie richieste. Edoardo ha iniziato l’asilo nido a sei mesi per mezza giornata (fino al pranzo) e a tempo pieno a dieci mesi. Ho chiesto che non gli venissero somministrati pappine e omogeneizzati ma che potesse accedere alla cucina dei bimbi più grandi, e che non venisse imboccato ma avesse la possibilità di manipolare il cibo con le mani. Valentina è stata molto disponibile; anche se non conosceva l’autosvezzamento, ha accolto le mie richieste, ripassando le regole di primo soccorso e assecondando Edoardo che ben presto è diventato un trascinatore nella sua sezione: le educatrici hanno dovuto chiedere il permesso ad alcune mamme di fare assaggiare ai loro bimbi il cibo che vedevano mangiare a lui! Il Natale del primo anno di asilo nido, ho voluto regalare a Valentina il libro di Piermarini affinché potesse conoscere i razionali che stavano dietro a quella scelta che aveva assecondato egregiamente. Ovviamente all’inizio quando andavo a prendere Edoardo si attaccava subito al seno, ma ho sempre voluto passare il messaggio che non m’importava che avesse mangiato tutto (la prima domanda che molti genitori fanno quando vanno a prendere i bambini a scuola!), ma che si fosse divertito nello sperimentare.

Anche i nonni per fortuna ci sono venuti dietro in questa scelta. Abbiamo fatto seguire anche a loro un breve corso di disostruzione pediatrica per sentirci più sereni nelle occasioni in cui Edoardo mangiava da loro senza la nostra presenza, e questo nipotino è diventato ben presto fonte di soddisfazione e orgoglio!


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8. E dopo la prima fase?

Ecco quello che gli autori consigliano nel momento in cui il bambino diventa più grandicello.

  • Mantenere una dieta sana ed equilibrata

Purtroppo o per fortuna, da adulti non possiamo adottare l’approccio esclusivamente naturale al cibo, perché le condizioni ambientali sono mutate (minore sforzo fisico, maggiore disponibilità di cibo, pressioni sociali…) e non può valere la regola del mangiare quel che si vuole e quanto se ne vuole. Per questo, è importante stare attenti almeno ai principi basilari, sfruttando magari la presenza di un nuovo piccolo commensale per correggere cattive abitudini.

Una buona esemplificazione di un’alimentazione corretta è quella offerta dalla piramide degli alimenti, che indica approssimativamente le proporzioni tra le diverse categorie di cibi, per mantenere l’equilibrato apporto nutritivo inizialmente garantito dal latte. Mantenendo una certa varietà, scegliendo prodotti di qualità e non rovinandoli con una pessima cottura, possiamo stare sufficientemente sereni; è importante solo non fare errori grossolani in maniera sistematica e, ovviamente, fare attività fisica.

Relativamente alle eventuali richieste dei bambini di assaggiare cibi non sani, è dimostrato che proibire non fa altro che aumentare il rischio di generare una pericolosa attrazione; per cui, meglio concedere uno sporadico assaggio senza darvi troppo peso e fare in modo che quel cibo, o bevanda, non sia sistematicamente presente sulla loro tavola.

  • Considerare che il tasso di crescita si riduce e il bambino è in grado di autoregolarsi

Già dal quarto/quinto mese inizia una progressiva decelerazione; poi, verso la fine del primo anno, il peso può anche arrestarsi. Ma quella che è una salutare svolta fisiologica viene spesso vissuta come una catastrofe. Molte famiglie iniziano a giudicare inappetente il proprio bambino e a mettere in atto una serie di escamotage per indurlo a mangiare: aggiunte di zucchero o parmigiano, alternanza di cibi graditi e cibi sostanziosi, messe in scena per distrarlo. A volte, addirittura, si arriva a minacce, forzature, vomiti, pianti, rimpalli di colpe e liti. Tutto questo non aiuta: sono i genitori autorevoli, e non quelli autoritari, a ottenere i migliori risultati anche in ambito alimentare; si è visto infatti che i bambini non forzati mangiano più volentieri anche ortaggi e legumi di tutti i tipi, al pari degli altri alimenti. Non dico che Edoardo apprezzi proprio tutto (ad esempio non mangia l’insalata cruda, per ora), però è fantastico come quest’anno abbia chiesto alla Befana, oltre ai dolcetti, anche broccoli e finocchi!

Edoardo a 1 anno e 5 mesi: un grande appassionato di verdure!

A dimostrazione della capacità dei bambini di autoregolarsi, è interessante ricordare un esperimento della pediatra americana Clara Marie Davis condotto nel 1928. Ella selezionò quindici bambini tra i 6 e i 9 mesi di vita e li mise davanti a una tavola dove erano visibili alimenti elementari, non industriali né mescolati tra loro. I bambini potevano scegliere cosa volevano e in che quantità: se un bambino mangiava un’intera porzione di un piatto in particolare, ne veniva portato ancora finché non smetteva di mangiare. Essi si nutrivano da soli oppure indicavano un piatto e venivano imboccati da un’infermiera che non poteva influenzare le loro decisioni. Vedendoli mangiare, l’impressione era di una totale confusione, con abbinamenti bizzarri e quantità tutt’altro che costanti. Eppure, l’analisi di ciascuna dieta dimostrava sistematicamente un equilibrato apporto di sostanze nutritive, con un idoneo e sempre spontaneo adeguamento man mano che i bambini crescevano. La conclusione è che i bambini possiedono, fin dalla nascita, la capacità di regolare il proprio appetito in funzione dei reali bisogni del proprio organismo. L’importante è che gli elementi selezionati a monte siano sani; dopodiché la raccomandazione è di consentire ai bambini di scegliere dalla tavola dei propri genitori, come storicamente è sempre avvenuto.

Spesso, la sfiducia nei confronti di questa capacità del bambino deriva dalla preoccupazione che egli non rientri nella media: ci si preoccupa infatti non della magrezza in assoluto, ma in relazione ad altri bambini della stessa età, negando loro il diritto alla diversità che rivendichiamo invece per noi adulti. Fare riferimento a delle dosi fisse, dunque, è fuorviante, perché le quantità consigliate, uno standard uguale per tutti, non potranno adattarsi con precisione che a pochissimi bambini: per gli altri, o sarà troppo, o troppo poco. Esiste un’ampia variabilità individuale e potremo capire dove ci collochiamo solo dopo aver seguito il nostro appetito senza condizionamenti esterni: se la scelta è ben orientata (equilibrio esemplificato dalla piramide degli alimenti), non ci importa di misurare le singole quantità perché saremo guidati dal nostro istinto, e lo stesso vale per i bambini. Non ha senso dunque allarmarsi se il loro appetito sembra variare nel corso del tempo.

  • Non utilizzare il cibo come premio per un comportamento giusto, come mezzo di corruzione per convincere il bambino a fare qualcosa che non vuole, o come punizione per un comportamento sbagliato.

Collegare il cibo al comportamento anziché all’appetito distorcerà il suo atteggiamento riguardo ai pasti. Il bambino finirà per considerare i cibi insalubri migliori degli altri, mangiando più cibo spazzatura di quello che dovrebbe e aspettandoselo tutte le volte che si comporta in una certa maniera. Allo stesso modo, vedrà i cibi salubri come inferiori o come un ostacolo da superare per arrivare a quelli veramente desiderabili. Qualche tempo fa, al café dell’Acquario di Genova, ho assistito al pranzo di una mamma che minacciava la figlia: <<se non mangi almeno due panini, non avrai il dolce>>. In questo modo, il cibo si confonde con le nozioni di potere e controllo nella testa del bambino, che non saprà più giudicare ciò che gli serve. Anche utilizzare ripetutamente cibi gustosi per consolare un bambino triste o arrabbiato, quando basterebbero delle coccole, può avere intuibili effetti nefasti sulle abitudini alimentari dell’adulto che verrà.

“Il comfort food ha l’incontestabile potere di sedurre il palato e di riaccendere facilmente il sorriso, ma proprio per questa sua capacità è un’arma delicata, una scorciatoia da usare con moderazione perché il suo beneficio ha un prezzo: indirizza verso un’alimentazione sbilanciata e insegna a cercare consolazione nelle cose anziché nella relazione con se stessi e con gli altri.”

F. Buglioni, Comfort food: il cibo che ferma le lacrime, UPPA n° 104


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9. Benefici…

Rapley e Murkett elencano una serie di benefici dell’autosvezzamento in cui mi sono trovata perfettamente; li sintetizzo di seguito.

  • È naturale

I bambini sono programmati per esplorare e sperimentare, soprattutto con la bocca e con le mani: è così che imparano. Con l’autosvezzamento, il bimbo può esplorare il cibo al suo ritmo e seguire l’istinto per mangiare quando è pronto.

  • Permette di conoscere il cibo “vero”

I bambini cui viene permesso di nutrirsi da soli imparano a conoscere l’aspetto, l’odore, il gusto, la consistenza dei vari cibi; nell’ambito dello svezzamento tradizionale, invece, tutti i sapori sono mescolati in un’unica purea. In questo modo, i bambini imparano quali sono i cibi che preferiscono e possono scegliere di lasciare il singolo alimento che non amano, invece di dover rinunciare a tutta la pappa. Significa che tutta la famiglia può mangiare insieme anche se non a tutti piace ogni cosa.

  • Insegna a mangiare in maniera sicura

Questo è il beneficio più difficile da spiegare, finché non lo si sperimenta, perché è diffusa la paura che i bambini che mangiano da soli possano strozzarsi col cibo. Merita dunque un piccolo approfondimento.

A volte, a spaventare sono i conati che si presentano quando si attiva il riflesso faringeo, che ha lo scopo di spingere il cibo in avanti perché difficile da inghiottire: non si tratta in realtà di strozzamento, ma di un meccanismo di sicurezza volto a prevenirlo. Nei bambini, il punto di innesco del riflesso faringeo è situato molto più avanti sulla lingua rispetto agli adulti, proprio per proteggerli: questo vuol dire sia che è più facile stimolarlo, sia che quando viene attivato il cibo si trova lontano dalle vie respiratorie. Il punto di innesco del riflesso faringeo si sposta sempre più indietro man mano che il bambino cresce, per cui gli episodi di conato svaniscono gradualmente: chi ha avuto modo di esplorare con il cibo sin da subito avrà potuto sfruttare meglio l’efficacia del riflesso faringeo come segnale di avvertimento.

Quando il cibo arriva effettivamente a ostruire le vie respiratorie, il bambino si strozza. Anche in questo caso, i colpi di tosse che derivano da un’ostruzione parziale non devono spaventare: sono un metodo efficace con cui il piccolo riesce a risolvere il problema da solo. È quando il bambino rimane in silenzio, perché l’aria non riesce a superare il blocco (ostruzione totale), che bisogna intervenire.

A patto che la forma del cibo proposto sia adeguata e che il bambino sia seduto correttamente, l’autosvezzamento non aumenta il rischio di strozzamento ma anzi aiuta a mangiare in sicurezza, perché il piccolo può esplorare il cibo con le mani prima di metterselo alla bocca (imparando ad esempio a capire qual è una dimensione del boccone gestibile): il rapporto tra quello che percepiamo con una parte del corpo e quello che sentiamo con un’altra, infatti, è una cosa che si impara solo tramite l’esperienza.

“Se i genitori hanno imparato a mettere in atto le precauzioni necessarie a evitare il soffocamento da cibo, il rischio di soffocamento durante l’autosvezzamento è paragonabile a quello presente nello svezzamento tradizionale. Queste sono le conclusioni di un recente studio neozelandese […]: a 6-8 mesi, il 35% dei bambini riporta un episodio di inalazione da cibo con ostruzione parziale o, più raramente, totale delle vie aeree, indipendentemente che pratichi un tipo o l’altro di svezzamento.”

M. Musetti, M. Marchesi, L. Seletti, Cibo a pezzi già dai sei mesi? E se poi soffoca?, UPPA n° 5/2017

  • Insegna a conoscere il mondo

Giocare per i bambini significa imparare. E il cibo è uno strumento educativo potentissimo: maneggiandolo, ad esempio, i bambini imparano come tenere in mano qualcosa di morbido senza romperlo o qualcosa di scivoloso senza farlo cadere. Sperimentano concetti come più e meno, la forma, le dimensioni, il peso, la consistenza: utilizzano tutti i sensi e scoprono come combinare tutti questi aspetti per capire meglio il mondo che li circonda.

  • Aiuta a realizzare il proprio potenziale

Nutrirsi da soli permette ai bambini di fare pratica a ogni pasto con aspetti importanti dello sviluppo: usando le dita per portarsi alla bocca il cibo allenano la coordinazione mano-occhio; afferrando cibi di forme e dimensioni diverse allenano la destrezza; masticando il cibo, invece che inghiottire sempre puree, sviluppano i muscoli facciali di cui in seguito avranno bisogno per parlare.

  • Permette di acquisire fiducia

Quando un bambino afferra qualcosa e se la porta alla bocca, riceve un premio quasi istantaneo sotto forma di gusto o consistenza interessante e questo lo aiuta ad acquisire fiducia nelle proprie abilità. Man mano che impara cosa è commestibile e cosa no, e cosa deve aspettarsi dai vari cibi, impara ad avere fiducia anche nel proprio giudizio. Vedere il proprio figlio nutrirsi da solo aumenta anche nei genitori la fiducia nelle sue capacità e questo spesso li rende più rilassati di fronte al suo bisogno di esplorare il mondo. Infine, dato che i bambini che si autosvezzano sfruttano i propri istinti per decidere cosa mangiare e cosa lasciare sul piatto, essi acquisiscono fiducia anche nei confronti del cibo e raramente si mostrano sospettosi o schizzinosi.

  • Rende il pasto in famiglia divertente, istruttivo, facile, sereno

Essere portati a tavola con la famiglia e incoraggiati a mangiare gli stessi alimenti degli altri fin dall’inizio, oltre che essere divertente per i bambini, farà sì che essi imitino il comportamento degli adulti, imparando presto a usare le posate, gestire diversi cibi, condividere, attendere il proprio turno, fare conversazione. In questo modo, inoltre, i pasti diventano più facili, perché:

  • non si perde tempo a cucinare cose diverse, a ridurre il cibo in purea, a imboccare il bambino;
  • il bambino non viene mai trascurato, perché si mangia tutti insieme e non c’è un momento in cui bisogna tenerlo impegnato mentre i grandi mangiano;
  • quando i bambini non vengono spinti a mangiare per forza, è impossibile che nascano problemi: trucchetti e giochi per persuaderli ad accettare il cibo non servono più, così come non servono promesse e compromessi per convincerli a mangiare cibi sani.

Esperienze con il cibo felici e salutari fin dalla prima infanzia favoriscono un atteggiamento positivo verso il cibo: sarà meno probabile che si presentino disturbi alimentari anche in età adolescenziale e adulta.

  • Favorisce la salute a lungo termine

Dato che la frequenza dell’allattamento si riduce molto gradualmente, i bambini che si autosvezzano e che vengono allattati al seno sono inclini a proseguire l’allattamento per più tempo; il latte materno non solo contiene un perfetto mix di elementi nutritivi, ma è anche ottimo per proteggere il bambino a la madre da molte malattie. Inoltre, i bambini che si autosvezzano sono inclini a mangiare in modo salubre e vario anche da grandi, in parte perché imitano i genitori (ovviamente la precondizione è che in casa si mangi sano), in parte perché tendono a essere più audaci. Infine, i bambini cui viene permesso di scegliere il cibo, il ritmo e la quantità molto probabilmente continueranno a mangiare seguendo il proprio appetito e saranno meno inclini a esagerare anche da grandi: questo aspetto potrebbe essere molto importante per prevenire l’obesità.

  • Rende più facili i pasti fuori casa

L’autosvezzamento fa sì che nel menu di gran parte dei ristoranti sia sempre possibile trovare qualcosa di adatto al bambino che, svezzandosi in questo modo, sarà verosimilmente un mangiatore più avventuroso. Per i genitori dunque sarà più facile andare a mangiar fuori, anche perché non bisogna preoccuparsi di portarsi dietro omogeneizzati o accessori ad hoc. La scelta migliore in questi casi è chiedere un piatto in più per il bambino, affinché possa assaggiare quello che ordinano i genitori, oppure richiedere una porzione più piccola di un piatto per adulti, evitando invece il “menu per bambini” che tipicamente è poco vario o meno sano.

Edoardo a 1 anno e 5 mesi: usa le bacchette al ristorante giapponese
  • E’ economico

L’autosvezzamento è più economico perché evita di comprare l’inutilmente costoso baby-food, ma anche di preparare pietanze separate con conseguente dispendio di risorse in accessori ed energia.

…e difficoltà

Di contro, bisognerà fare i conti con la confusione che inevitabilmente i bambini che si autosvezzano porteranno in tavola prima degli altri (ma finirà presto, perché avranno modo di fare pratica e imparare in fretta!) e con la preoccupazione degli altri, perché molti non conoscono l’autosvezzamento e non capiscono come funziona.

Per far fronte alla confusione, si può pensare di utilizzare dei fogli di giornale sotto il seggiolone (noi li abbiamo trovati comodi quando eravamo ospiti in casa altrui) e, a meno che lo svezzamento inizi in una stagione calda tale da permettere di tenere il bambino nudo, dei bavagli con le maniche lunghe in materiale plastico. Per far fronte alla preoccupazione degli altri, invece… ci vuole “solo” tanta pazienza e buona capacità di argomentazione!


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