“Esiste un beneficio psicologico straordinario nell’appartenere a un gruppo di donne che hanno storie positive da raccontare sulla loro esperienza di parto” (Ina May Gaskin, La gioia del parto)
Tre cose da non fare quando si avvicina la data presunta del parto
- Bere olio di ricino con succo di frutta: è vero che induce il parto, ma rischia di far emettere feci al bambino mentre è ancora dentro l’utero.
- Assumere zuccheri prima del tracciato: è vero che in questo modo il tracciato dura meno, ma non è attendibile perché è come se il bambino fosse “dopato”; bisogna invece mantenere le abitudini alimentari solite.
- Seguire le schede che fanno contare i movimenti del bambino: la letteratura più accreditata sostiene che la mamma è in grado di riconoscere le variazioni nei movimenti; tenendo conto del fatto che, man mano che si va avanti, i movimenti perdono di ampiezza ma mantengono la forza, la mamma dovrebbe essere in grado di registrare variazioni sia in difetto che in eccesso (non è vero, infatti, che se il bambino si muove tantissimo va sicuramente tutto bene).
Segnali che annunciano il travaglio imminente
- Rottura delle membrane
- Perdita del tappo mucoso (sostanza gelatinosa che chiude il collo dell’utero)
- Dolore simile a quello delle mestruazioni
- Dolore alle ossa (il bacino diventa più flessibile)
- Sogni ricorrenti (quest’ultimo segnale sembra avere poco di scientifico, ma molte donne sostengono che, in prossimità del parto, si sogna di più)
La rottura delle membrane è l’unico caso in cui è bene recarsi in ospedale entro un paio d’ore anche se il travaglio non è ancora iniziato. Infatti, la rottura delle membrane normalmente dovrebbe verificarsi quando il travaglio è già iniziato: il collo uterino si dilata e le membrane sono sottoposte alla tensione indotta dalle contrazioni e dalle spinte del feto; a volte però può succedere che si verifichi prima che le contrazioni si siano avviate. In questo caso la donna viene ricoverata perché l’integrità delle membrane amniotiche garantisce la sterilità dell’ambiente endouterino mentre, con la loro rottura, la cavità amniotica può essere colonizzata da microrganismi patogeni che potrebbero, dopo diverse ore, causare infezioni. La rottura del sacco può avere effetti diversi a seconda della posizione: è molto evidente se si rompe in basso, lo è meno se si rompe in alto. Per riconoscere la rottura del sacco, si può prestare attenzione ad alcuni elementi: se si svuota la vescica, ci si distende e si hanno poi delle perdite, è perché si è raccolto del liquido amniotico; se è tinto (opaco, verdastro o quasi nero, con una consistenza poco fluida), non ci sono dubbi; si può anche sentire l’odore, più simile a quello del liquido seminale che della pipì.
Il segnale che il momento si stava avvicinando fu per me l’aver iniziato a perdere il tappo. La mattina di giovedì 2 marzo mi svegliai alle 5 per fare pipì e notai delle perdite di muco e sangue. Tornai a letto e dormii fino alle 7. Leonardo decise di anticipare la giornata di smart working pianificata per il giorno seguente per stare a casa con me; era particolarmente eccitato. Dopo una colazione abbondante (volevo essere carica nel caso in cui il travaglio partisse), fui felice di riuscire ad andare in bagno, perché l’ostetrica ci aveva detto che durante il parto può capitare di fare la cacca se non ci si è liberati di recente. Oltre a tenere aggiornati mia madre e i miei fratelli sul gruppo Whatsapp “Famiglia in attesa del nipote”, inviai un SMS alla ginecologa che mi aveva seguita durante la gravidanza e al marito, che avrebbe dovuto assistermi al parto. Avevamo infatti deciso di partorire all’Ospedale Maggiore della Carità di Novara ma tramite la Casa di Cura, per poter avere la camera privata che ospitasse anche il papà; il “pacchetto” comprendeva la scelta di un’ostetrica e un ginecologo dedicati e, non lavorando intramoenia, la dottoressa mi aveva affidata al marito. Dopodiché feci un lungo bagno.
La maggior parte delle donne trae immediato sollievo dal dolore attraverso l’idroterapia poiché stare nell’acqua è calmante e rilassante. Infatti è difficile rimanere tese mentre ci si trova in acqua. L’acqua aiuta la donna a entrare in uno stato meditativo che favorisce un travaglio efficace. (Ina May Gaskin, La gioia del parto)
Le contrazioni
Già dalla 30a settimana di gestazione possono presentarsi delle contrazioni, cosiddette “di Braxton Hicks“: si tratta di contrazioni fisiologiche che non modificano la cervice uterina, ma possono dipendere da sollecitazioni dovute a movimenti decisi del bambino; queste contrazioni sono sporadiche e indolori (si avverte solo un indurimento della pancia).
Può capitare, al termine di una giornata impegnativa o di un’attività stancante, di percepire alcune contrazioni fastidiose che poi cessano spontaneamente: in questo caso le contrazioni possono essere un segnale del corpo che chiede alla donna di riposarsi.
Quando la data presunta del parto è vicina, dalla 37a settimana di gestazione, possono presentarsi invece contrazioni dolorose (il dolore è sempre speculare alla contrazione), che non segnano ancora l’avvio del travaglio, ma preparano l’utero per il parto: per partorire, infatti, il collo dell’utero deve ammorbidirsi, centralizzarsi e dilatarsi.
Il travaglio di parto inizia veramente quando le contrazioni diventano regolari e aumentano nel tempo in intensità, durata e frequenza.
- Intensità
La contrazione ha un andamento a campana: parte da un tono dell’utero pari a zero, l’intensità aumenta e c’è di nuovo assenza totale di dolore alla fine. Nell’acme, la donna potrebbe avere un comportamento selvaggio e la sensazione di non farcela per il dolore intenso. In questi momenti si è immerse nei propri limiti, ma è importante ricordare che il dolore del parto non è assimilabile a qualcosa di patologico, che consuma: ogni contrazione restituisce la donna uguale a prima; fa male, ma non del male, dunque non bisogna temerla. - Durata
In travaglio attivo, la contrazione dura circa 50-60 secondi, la pausa dura circa 2-3 minuti; è importante quindi ricordare che la durata delle pause è maggiore della durata delle contrazioni, e questo tempo va sfruttato per recuperare. - Frequenza
Se si è in attesa del primo figlio, è il momento di recarsi in ospedale quando le contrazioni hanno una frequenza di 5 minuti, una durata di almeno 30 secondi e sono regolari da almeno 1 ora e mezza (dal secondo figlio in poi il travaglio è tipicamente più veloce, quindi non bisogna aspettare così tanto).
Il parto spesso causa dolore – almeno la prima volta – ma […] è un tipo di dolore differente da ogni altro tipo di ferita. Quando ci si ferisce e si sente dolore, il messaggio del dolore è: “Vattene via!” oppure “Difenditi, sei stato colpito”. Questo è un tipo di informazione legata all’istinto di sopravvivenza. Il messaggio mandato dal dolore del parto è completamente differente. Dice: “Rilassa i tuoi muscoli pelvici. Lasciati andare, arrenditi. Segui la marea, non combatterla perché è più grande di te”. (Ina May Gaskin, La gioia del parto)
Per tutta la giornata di giovedì 2 marzo, le contrazioni furono abbastanza sopportabili, simili ai dolori mestruali e ai dolori che avevo provato, due anni prima, nel corso di un aborto spontaneo. Ma notavo che si andavano via via ravvicinando. Alle 17 arrivavano ogni quarto d’ora circa. Leonardo e io andammo a letto, decisi a non farci prendere dall’agitazione che porta a recarsi in ospedale prima del tempo; lo avvisavo ogni volta che il dolore iniziava, in modo che potesse contare i minuti. Tra mezzanotte e mezza e le due, le contrazioni continuarono ad arrivare ogni 5 minuti, così – come da indicazioni – decidemmo di andare. Ricordo che, mentre alcune sere facevo fatica a prendere sonno al pensiero di come si sarebbe svolto il parto, quella notte ero positivamente emozionata, allegra e carica: al momento di vestirmi, con l’aiuto di Leonardo, scherzai con lui sul fatto che era inconcepibile indossare dei calzini con scritto un giorno della settimana diverso da “Friday”, e me li feci cambiare. Dopo il monitoraggio (ero contenta che di notte la situazione fosse tranquilla), la ginecologa di turno mi visitò e notò un collo dell’utero morbido e appianato, anche se ancora posteriore, per questo decise di ricoverarmi. Lei e l’infermiera non riuscivano a capire, però, se il sacco amniotico si fosse rotto, dal momento che avevo delle perdite ma in quel momento non erano disponibili i test. Il non essere rispedita a casa mi dava fiducia nel fatto che stessimo facendo le cose giuste; volli subito comunicarlo all’ostetrica del corso di accompagnamento alla nascita. I miei medici furono avvisati e ci fu assegnata la camera numero 1, dove attesi Leonardo – che nel frattempo era andato a parcheggiare in un posto “non temporaneo” – nella posizione che più mi aiutava a sopportare il dolore, ovvero in piedi appoggiata alla sedia.
Cosa fare e non fare per sostenere la dinamica dell’utero
E’ importante tenere presente tre elementi positivi:
- cibo
- acqua
- pipì
Mangiare e bere evita disidratazione e debolezza durante il travaglio.
Recarsi in bagno a intervalli regolari evita che la vescica diventi così gonfia da necessitare dell’inserimento di un catetere e favorisce una reazione condizionata che porta al rilassamento della muscolatura pelvica: in fase dilatatoria è utile per la pressione sulla cervice, in fase espulsiva è utile per la discesa del bambino.
Anche la musica può essere un valido aiuto per affrontare il travaglio. Particolarmente indicato è Mozart, che propone un genere di sonorità strumentale molto vicina ai ritmi vitali dell’organismo. Addirittura, alcuni studi condotti dall’Università di Madison, nel Wisconsin (USA), hanno dimostrato che la produzione di latte nelle mucche che ascoltano musica sinfonica aumenta.
Due elementi negativi invece sono:
- assenza di movimento
- paura
L’assenza di movimento è negativa perché il movimento aiuta la dilatazione della cervice e serve per tenere il bambino nella posizione più vantaggiosa per il passaggio attraverso il bacino; l’atto del partorire, infatti, è un armonico confronto tra il diametro della testa fetale e il diametro del bacino, per cui il bambino deve ruotare per incontrare il diametro più favorevole.
Muoversi comporta cambiare spesso posizione; le posizioni comuni per il travaglio sono: sedersi, inginocchiarsi, stare in piedi, accovacciarsi, mettersi a quattro zampe. I vantaggi di queste posizioni sono che si è aiutate dalla forza di gravità, il feto non comprime i vasi sanguigni della madre, il bambino è meglio allineato, le contrazioni sono più forti e il diametro pelvico è incrementato. La posizione supina è figlia di pressioni culturali che hanno portato a credere che sia “più dignitosa”.
Se vogliamo farci un’idea di quale sia la posizione naturale, dobbiamo osservare le donne che agiscono guidate dall’istinto, non dal pudore; ed è solo tra le popolazioni selvagge che, ai giorni nostri, lo possiamo trovare. In questa funzione prettamente animale l’istinto guida guida la donna più correttamente rispetto agli svariati costumi del tempo. (George Engelmann, Labor among Primitive People)
La paura è negativa perché produce adrenalina, che vince sull’ossitocina rischiando di allungare o addirittura bloccare il travaglio.
Per partorire “bene”, infatti, la donna (ma anche gli altri mammiferi femminili) rilascia un cocktail di ormoni quali l’ossitocina, le endorfine e la prolattina, cosiddetti “timidi” perché vengono prodotti dal cervello primitivo (che governa l’istinto) in situazioni di calore, buio, silenzio, rilassamento.
L’ossitocina serve a produrre la contrazione e, come una reazione a catena, il dolore delle contrazioni, insieme al contatto meccanico della testa del bambino sugli organi genitali, produce ulteriormente ossitocina. Questo ormone viene rilasciato non solo come risposta a uno stimolo doloroso, ma anche in reazione al contatto affettuoso e sensuale: i massaggi, la stimolazione dei capezzoli, la voce della persona amata, pensare al bambino che nasce possono aiutare durante il travaglio.
La natura ha pensato anche a un meccanismo di compensazione del dolore grazie alla produzione di endorfine, oppiacei naturali efficaci all’istante e senza alcuna controindicazione: ecco perché una buona risata costituisce una delle migliori forme di analgesia.
Attivare invece la parte più giovane, razionale e “pensante” del cervello (ovvero la neocorteccia) può interferire con il processo del parto, inibendo l’azione di rilascio degli ormoni; per questo è importante che chi è presente eviti di porre domande che richiedono di pensare, far sentire la donna impacciata, esporla a luci abbaglianti o trascurare la sua privacy.
Se la donna prova paura, ansia, spavento, rabbia, aumenta il livello di adrenalina nel sangue. L’adrenalina è l’ormone di attività, mobilità e vigilanza; alti livelli rendono forti e rapidi, cosicché si possa sia combattere che fuggire: se nella fase finale del parto può aiutare ad accelerare, durante il travaglio fa da freno. Questo è uno dei modi in cui i mammiferi hanno costituito il loro “programma di protezione” durante il vulnerabile processo del parto. Gli animali selvatici in travaglio, quali ad esempio le gazzelle, possono trovarsi sul punto di partorire e improvvisamente bloccare tutto in caso vengano sorpresi da un predatore. Questi stessi comportamenti evolutivi si attuano nella donna: ecco perché è così importante scegliere con cura dove partorire e quando andare in ospedale. Il motivo per cui se non si è ancora in travaglio attivo si viene rimandati a casa è che è bene fare il grosso del lavoro in un ambiente intimo, con il proprio compagno o con persone con cui ci si sente a proprio agio.
Per affrontare il travaglio, Leonardo aveva fatto scorta di cibi energetici ma non pesanti (schiacciatine, sfogliatine, biscotti, acqua, tè,…); a dire il vero quella scorta era in casa già da qualche settimana e aveva richiesto di essere rimpolpata dal momento che io l’avevo intaccata ben prima dell’inizio del travaglio. Una volta avviata la fase prodromica, oltre a mangiare, mi preoccupai di rimanere in movimento facendo esattamente quello che avrei fatto se fossi stata bene, ovvero pulire casa (così come mia madre mi racconta di aver fatto prima che nascessi io); eravamo un po’ preoccupati perché eravamo nel mezzo di una ristrutturazione e speravamo che la cucina nuova arrivasse prima di Edoardo, ma non fu così. Mi truccai e vestii, tenendomi pronta per l’ospedale, ma non me la sentii di uscire per le altre commissioni, per cui chiedemmo a Carla, la mamma di Leonardo, di andare al negozio dove avevamo aperto la lista nascita per prendere le cose che ci sembravano fondamentali e che ancora non ci avevano regalato: il trio e le lenzuola. Pensavo di fare tutto il necessario per sostenere la dinamica dell’utero e far procedere il travaglio nel migliore dei modi e quando arrivai in ospedale non mi sentii a disagio. Avevamo una camera tutta per noi e le ostetriche erano molto gentili; ogni due ore circa entravano in camera per verificare come stessi, ma purtroppo la risposta era sempre la stessa: “fin troppo bene”. Non so spiegarmi che cosa scattò in me, probabilmente il cambiamento d’ambiente fece aumentare il livello di adrenalina, ma successe quello che i manuali riportano come situazione non infrequente: molte donne, a travaglio cominciato, si ritrovano a non essere più in travaglio una volta che arrivano in ospedale.
L’induzione
In alcuni casi, tipicamente quando la gravidanza va oltre il termine o vi sono patologie/rischi che richiedono di intervenire prima del termine, il ginecologo può decidere di utilizzare alcune tecniche in grado di provocare una trasformazione del collo dell’utero e stimolare le contrazioni necessarie. L’induzione può avvenire in vari modi:
- Gel a base di prostaglandine
E’ utilizzato se il collo dell’utero è non permissivo; una volta applicato, non se ne può modulare l’attività. - Fettucce
Simili a un assorbente interno, contengono un materiale che libera, a poco a poco, piccole dosi di prostaglandine; il rilascio graduale del medicinale consente un avvio più soft delle contrazioni, con l’ulteriore vantaggio che la benderella si può togliere e reinserire in qualunque momento a seconda di come evolve la situazione.
Le prostaglandine sono sostanze che agiscono come emollienti della cervice e della parte bassa dell’utero e sono naturalmente contenute nello sperma; ecco perché nelle ultime settimane di gestazione (a partire dalla 37a) si consiglia di avere rapporti sessuali: le prostaglandine introdotte naturalmente, infatti, non hanno effetti collaterali, mentre l’introduzione tramite gel o fettucce deve essere monitorato.
- Scollamento delle membrane
Si tratta dello scollamento meccanico, senza rottura, del sacco amniotico dalla superficie interna del collo dell’utero e viene effettuato manualmente dal ginecologo; è una pratica breve ma dolorosa e può determinare perdite ematiche; in alcuni casi è utile per sollecitare le contrazioni se il travaglio si è avviato ma procede un po’ a rilento. - Rottura delle acque
Questo metodo da solo è in grado di indurre il travaglio nel giro di 24 ore nel 70-80% delle donne; è soggetto a un limite di tempo entro il quale il travaglio deve partire e si deve concludere, a causa dei rischi di infezione. - Ossitocina
Viene adoperata nel caso in cui il collo dell’utero si è già ammorbidito e raccorciato, ma la dilatazione non procede e quindi il travaglio non si avvia; l’ossitocina, somministrata per via endovenosa tramite flebo, fa aumentare le contrazioni, accelerando in tal modo i tempi della dilatazione (e rendendo il travaglio più doloroso).
Nel caso in cui, nonostante l’utilizzo di queste tecniche, il travaglio non parte come dovrebbe, si può ricorrere al taglio cesareo.
La mattina di venerdì 3 marzo, l’ostetrica di turno, dopo aver constatato che il travaglio non procedeva (io continuavo a stare bene e le contrazioni si erano diradate) mi disse che il mio ginecologo stava per arrivare e mi avrebbe visitata per valutare come procedere. Durante la visita, dopo avermi confermato – come pensavo – che il sacco amniotico era integro, fece l’operazione che più temevo perché mi aveva impressionato durante il corso (che comunque è stato fondamentale per capire cosa stesse succedendo): lo scollamento delle membrane. Fu breve ma dolorosissimo e improvviso, perché non ero stata avvisata: semplicemente mi era stato detto che avrei ricevuto “un aiutino”. Vedendo la mia espressione, Leonardo si stupì di come in quel momento avessi resistito dall’aggredire il dottore. Aggiornai l’ostetrica del corso di accompagnamento alla nascita e mi suggerì di tornare a casa; col senno di poi, penso che sarebbe stata la cosa migliore e ho il sospetto che al dottore non dispiacesse l’idea di portare a termine il proprio compito in un comodo venerdì mattina di turno, liberandosi dalla reperibilità del weekend e delle successive settimane. Non volevo l’induzione, ma non ebbi la voglia e la forza di mettere in discussione le decisioni di chi si stava prendendo cura di me. Il dottore mi spedì in sala parto, dove conobbi l’ostetrica che mi avrebbe seguita. Nonostante l’aver scelto di partorire in regime di libera professione mi permettesse di ingaggiare un’ostetrica a me dedicata, infatti, erano ben poche coloro che davano la disponibilità a lavorare intramoenia e, dopo un confronto non piacevole con una di queste, avevo deciso di affidarmi al caso, piuttosto che avere la certezza di essere assistita da una persona con cui non mi trovavo bene. Fu una buona scelta, perché la mia si dimostrò esperta e confortante, ed ebbi comunque il privilegio di averla sempre con me in sala parto nonostante i cambi turno. Su indicazioni del ginecologo, mi ruppe con l’uncino il sacco amniotico, non senza avermi prima spiegato cosa stava per fare; fortunatamente sapevo, dal corso, che “uncino” è una brutta parola data (da medici uomini) a un’operazione del tutto indolore e anzi piacevole per la sensazione di calore che emana. In aggiunta a tutto ciò, per fare aumentare le contrazioni e accelerare il travaglio, mi fu attaccata la flebo per la somministrazione di ossitocina.
Oggigiorno è naturalmente possibile farlo ripartire [il travaglio] attraverso ossitocina sintetica via endovena. Questo può essere utile quando è strettamente necessario, ma i farmaci dati endovena per portare avanti il travaglio le impediscono di muoversi liberamente e le causano contrazioni più dolorose. Il cambiamento di posizione, il camminare, l’essere nutrite e il potere stare in piedi durante il travaglio sono cose fondamentali per la capacità di partorire con le proprie forze. E non vi è medicinale somministrato durante il travaglio o il parto che non abbia qualche controindicazione.
[…]
L’uso dell’ossitocina raddoppia le probabilità di nascita in condizioni critiche in quanto contrazioni troppo forti possono interferire con il flusso di sangue ricco di ossigeno che la madre passa al bambino. Un altro pericolo dell’induzione con ossitocina è un aumento dell’incidenza di emorragie post partum.
(Ina May Gaskin, La gioia del parto)
Chi portare in sala parto
La scelta della persona che ci assista in sala parto, oltre al personale medico, è molto importante; non può essere più di una (a meno che non ci si dia il cambio), almeno nell’ospedale di Novara. È molto importante perché è stato osservato che, se la persona è quella giusta, aumentano le probabilità di parto fisiologico. È stato anche osservato che, se si sceglie di avere accanto il partner, è più probabile che questi inizi prima ad accudire il bambino. Ma non è detto che il partner sia la persona giusta da portare in sala parto; per capirlo, la donna deve domandarsi se:
- possa essere di sostegno in quel momento
- sia in grado di lasciarsi totalmente andare in sua presenza
- le sue caratteristiche personali lo rendano adatto: se per la donna, infatti, è “scritto”, non è detto che l’uomo sia in grado di affrontare in prima persona l’esperienza del parto.
Va anche considerato che l’uomo vede in quel momento l’oggetto del proprio desiderio sessuale trasformato nei modi e nel fisico: non è escluso che vi sia un calo del desiderio sessuale. Se si sceglie di avere accanto il partner e il partner è “conducente”, è stata osservata una minore presenza e necessità di intervento dell’ostetrica.
Non sono in grado di enumerare quante volte ho osservato donne provare questo stato di rilassamento dello sfintere cervicale in correlazione con parole positive e gentili dette durante la fase più intensa del travaglio. […] Fiducia e amore rendono possibile il rilassamento. (Ina May Gaskin, La gioia del parto)
Durante la seconda lezione del corso di accompagnamento alla nascita, l’ostetrica ci aveva fatto visitare una delle quattro sale parto dell’ospedale di Novara, affinché prendessimo un po’ di familiarità e varcassimo anche simbolicamente quella porta che rendeva il parto prossimo alla concretezza. Io entrai nella sala numero 2, intorno alle ore 10. Sapevo che ogni sala era dotata di un lettino reclinabile, qualche attrezzo (sbarra, sgabello) per le diverse posizioni e alcuni strumenti (ventosa, forcipe, uncino) a uso delle ostetriche; nel complesso, un allestimento semplice, diverso delle sale operatorie, perché partorire è un’azione naturale. Quel giorno non notai nulla di tutto ciò. Mi fecero sdraiare sul lettino, con l’accortezza di abbassare le tapparelle per tenere la luce al minimo, e Leonardo inserì nello stereo il CD di Mozart, che piacque molto all’ostetrica. Non mi passò mai per la testa di far entrare in sala parto una persona diversa da Leonardo. Sia per il rapporto che avevamo costruito (è la persona con cui più di tutti mi sento libera di esprimermi), sia per il rapporto che sarebbe nato con il bambino (che infatti è stato fin da subito fortissimo). Non ero tuttavia sicura che ne sarebbe uscito indenne, temevo svenisse… e invece è stato fantastico. Sia per la praticità (ha assistito l’ostetrica come se facesse parte dello staff), sia per la discrezione (ha continuato a stringermi la mano senza fare domande cretine tipo “come stai?”), sia per la positività (avevo accanto un uomo che non appesantiva con l’ansia il mio dolore, ma viveva con rispettosa gioia il miracolo della vita). E non ha avuto un calo del desiderio sessuale… nonostante abbia visto proprio tutto.
La fase dilatante
La fase dilatante è quella in cui, sotto lo stimolo delle contrazioni, il collo dell’utero si apre progressivamente fino a raggiungere la dilatazione completa, pari a 10 cm. Intanto, la testa del bambino comincia a scendere lungo il canale del parto.
In fase dilatante è importante che venga praticata una respirazione addominale profonda, perché dà ossigeno al bambino, diminuisce il dolore e scandisce i movimenti. Bisogna evitare i ragionamenti, perché il cervello consuma l’ossigeno che serve all’utero; occorre sfruttare le pause per recuperare energia e pensare a cose belle.
Nella curva di un parto “normale”, dopo i 2-3 cm di dilatazione c’è un’impennata. Intorno ai 7 cm, è la tipica fase in cui la donna pensa “sto morendo”: il travaglio subisce una naturale battuta di arresto (prima fase di transizione) che permette l’adattamento del corpo e della psiche prima della dilatazione completa. Ancora una volta, predomina la funzione protettiva: se la madre non percepisce una situazione calma e sicura, la fase latente si prolunga al fine di salvaguardare lei e la prole in una situazione di grande vulnerabilità. La seconda fase del periodo dilatante, che porta la dilatazione dai 7 cm al completamento, è relativamente veloce. Tutto questo processo ha portato all’apertura completa del grembo materno e alla contemporanea discesa della testa fetale. Si ha ancora una pausa (seconda fase di transizione), che precede il momento in cui la donna avvertirà il premito, ovvero la pulsione irresistibile di spingere fuori il bambino.
In questa fase, l’adrenalina, invece che bloccare, velocizza.
Appena entrata in sala parto, provai angoscia per le urla della partoriente nella stanza accanto. “Pensa che ha chiesto l’epidurale” fu la battuta dell’ostetrica, la quale intendeva mostrarmi come non sempre si realizzano le aspettative delle donne che con l’analgesia pensano di essere immuni al dolore, e che invece suscitò in me il pensiero che nel mio caso sarebbe stato pure peggio. Fino ad allora avevo reagito bene alle contrazioni, per cui ottimisticamente credevo che avrei solo dovuto continuare così nel sopportare il dolore del travaglio e poi essere forte nello spingere. In realtà il travaglio vero doveva ancora incominciare e con l’ossitocina le “onde” si fecero presto violente. Nessuno mi raccontava né io mi resi conto del ritmo con cui progrediva la dilatazione. Io non avevo alcuna percezione del tempo, a posteriori so che – delle cinque ore trascorse in sala parto prima della nascita – circa quattro furono necessarie ad aprirmi completamente. Ho ricordi positivi della respirazione profonda che riuscii a mantenere, grazie anche a qualche incontro di meditazione fatto con Roberto, il papà di Leonardo. Per quasi tutto il tempo tenni gli occhi chiusi o semi, raccolta in me stessa e concentrata pur senza ragionare: una sorta di “abbandono consapevole”. Fui felice di questo tipo di gestione, perché l’ostetrica mi aveva detto che gli ingegneri rischiano di partorire male in quanto troppo razionali. Fui felice anche di riuscire a fare fino alla fine pensieri positivi: non mi passò mai per la testa un “chi me l’ha fatto fare?” o “tagliatemi perché non ce la faccio più!”; mi risuonavano chiare in mente le parole udite al corso: noi non soffriamo a causa del nostro bambino, ma lui è impegnato almeno quanto noi nel portare a termine il lavoro, per cui dobbiamo fare squadra. Fui felice, infine, di non aver chiesto l’epidurale, di aver vissuto a pieno il momento presente senza interferire con i tempi di discesa del bambino. Leonardo, all’occorrenza, mi stringeva la mano, mi dava dell’acqua o mi liberava il viso dai capelli; ricordo di averlo trattenuto in sala quando qualcuno da fuori entrò per avere notizie da portare a mia madre in sala d’attesa. L’ostetrica mi invitava a vocalizzare e suggeriva diverse posizioni per favorire la transizione: ogni tanto accovacciata, ogni tanto di fianco; gli spostamenti erano difficoltosi per tutto ciò che mi era stato attaccato per il monitoraggio e la somministrazione di ossitocina. Ricordo un particolare momento in cui mi venne chiesto di sollevarmi ma ebbi bisogno di stare qualche secondo accovacciata per riprendere le forze; in un’occasione in cui ero in piedi per favorire la discesa con la forza di gravità credo di aver fatto anche la pipì. Era confortante sentire l’ostetrica che mi diceva “stai andando bene” quando, piagnucolante, manifestavo la mia stanchezza; mi dava fastidio invece se la sentivo chiacchierare con una OSS o con il medico che ogni tanto entrava, era come se il processo non potesse andare avanti se anche lei non si concentrava con me. Quel processo mi sembrava interminabile e non vedevo l’ora che arrivasse la parte delle spinte.
Una bocca rilassata significa una cervice più elastica. Le donne le cui bocche sono rilassate e aperte durante il travaglio e il parto raramente hanno bisogno di punti. Fin tanto che non spingeranno fuori il bambino troppo velocemente, sarà meno probabile che si lacerino o debbano essere tagliate. […] Questo effetto viene rafforzato se sei emette anche un suono al movimento dell’espirazione. Il suono dovrà essere sufficientemente basso da far vibrare la cassa toracica. […] Cantare porta al massimo la capacità di apertura degli sfinteri. (Ina May Gaskin, La gioia del parto)
La fase espulsiva
La fase espulsiva ha una durata più breve del periodo dilatante e per molte donne è la fase migliore: hanno qualche difficoltà in questa fase le donne che sanno che avranno nostalgia della pancia o che non partoriranno più.
La fase espulsiva è caratterizzata dal premito, ovvero dal desiderio di spingere (esattamente come quando scappa la cacca!), specularmente alla contrazione, fino a quando il bimbo non affiora dalla vulva.Ci sono due modi per gestire questa fase:
- l’ostetricia tradizionale è per la spinta guidata, per le mamme che hanno bisogno di sapere che stanno facendo la cosa giusta;
- l’ostetricia contemporanea lascia alla donna capire da sola come e quando spingere.
Durante la fase espulsiva, è importante tenere posizioni e movimenti di apertura, e il coccige libero; è importante altresì avere forza e determinazione: se si rilasciano tante endorfine, queste passano dalla mamma al bambino a ulteriore protezione (il bambino infatti deve essere tonico).
L’irradiazione del dolore è diversa a seconda della posizione del bambino.
La spinta deve avvenire guardando la pancia (e non in alto) e trattenendo l’aria (altrimenti si spinge di gola).
Il movimento è caratterizzato da un “vai e vieni” (ovvero la testa scende durante la contrazione per poi risalire di qualche centimetro nelle pause), che ha la funzione di preservare i tessuti materni, i quali si strapperebbero se fossero tesi in un colpo solo. Questo movimento ondulatorio consente invece alla vagina e alle grandi labbra di stirarsi gradualmente riducendo il trauma al minimo. La testa così affiora diverse volte per poi tornare indietro.
Quando si arriva al massimo diametro, si prova un forte bruciore: è il cosiddetto “cerchio di fuoco”, che serve proprio a rallentare per evitare di lacerare i genitali. Se fino a quel momento si è amato un bambino “immaginario”, il cerchio di fuoco è anche un segno fisico del bambino che diventa reale.
A questo punto la testa sguscia da sola verso l’esterno.
Non si tira fuori il bambino perché le spalle non sono in posizione favorevole: va ruotato, ed è lui stesso che indica da che parte; l’ostetrica lo gira e sfila.
Quando l’ostetrica mi disse di sdraiarmi sul lettino in posizione ginecologica, fui felice; non perché fossi più comoda, ma perché mi aveva anticipato che, avendo fatto noi la scelta di raccogliere e conservare le cellule staminali, era necessario trovarci in quella posizione al momento della nascita, per cui sapevo che stava arrivando la fase espulsiva. Mi chiese se sentivo la voglia di spingere e, monitorando le mie contrazioni, mi indicava quando. Mi ero fatta l’idea di essere una di quelle donne che ha bisogno di indicazioni precise, invece a posteriori mi rendo conto che ciò che veramente mi serve è la rassicurazione, non la guida. Spinsi infatti anche quando non sentivo il premito né la contrazione, più forte che potevo perché sapevo di essere fisicamente allenata e pensavo di aiutare così il mio bambino; in realtà ho letto di recente che spingere troppo forte e troppo presto è peggio, perché affatica eccessivamente la mamma e il bambino, è meno efficace e aumenta il rischio di lacerazioni. Le spinte fisiologiche, invece, assecondano semplicemente le pulsioni dell’utero che possono essere più d’una all’interno della stessa contrazione, accompagnando l’uscita nella maniera più dolce, con un minor rischio di lacerazioni. Durante le spinte, emettevo suoni che non sembravano uscire dalla mia bocca: non riuscirei mai a replicarli, se ci provassi; questo al corso lo avevano anticipato: ci avevano raccontato che i bambini che sentivano da fuori le voci delle partorienti non le associavano a donne o uomini, ma a mostri o dinosauri. L’ostetrica continuava a dirmi che c’eravamo quasi, si vedeva una testa folta di capelli neri come i miei. Quel “quasi” però diventava parecchio lungo e Leonardo mi confermò in seguito che era imbarazzato dall’illusione che mi veniva creata, perché era evidente che la testa era ancora in quel “vai e vieni” che la faceva ritrarre alla fine di ogni contrazione. Capì che c’eravamo quasi veramente quando l’ostetrica cambiò camice e guanti, prese teli, cuscino e quanto necessario per essere pronti all’espulsione. Io spingevo da un tempo inquantificabile ma sufficientemente lungo per sentirmi sfinita, il dottore entrò e con fare distaccato mi disse di spingere nel punto che l’ostetrica stava toccando. Il pensiero che ricordo è che il bambino esce dalla vulva, ma la sensazione è proprio quella di fare la cacca. Temevo infatti che sarebbe uscito anche altro e invece a un certo punto sentì sgusciare fuori la testa e subito dopo, con la stessa spinta, il resto del corpo: un sollievo totale. Leonardo mi raccontò che Edoardo fu quasi preso “al volo” e indirizzato sul cuscino, non ci fu bisogno di tirare, ruotare o facilitare in qualche modo la fuoriuscita delle spalle. Erano le 14:48. Subito mi venne poggiato sul petto e io non percepii quasi nulla del via vai che si era creato per recuperare il cordone che l’ostetrica non aveva capito andasse conservato insieme al sangue. Mi dissero che aveva lasciato vernice caseosa ovunque sul pavimento, ma su di me mi parve perfetto, morbido e bellissimo; aveva la testa un po’ allungata e mi spiegarono che si trattava di un “tumore da parto” che sarebbe rientrato in poche ore: la fatica nell’uscire era dovuta proprio al fatto che la testolina era leggermente flessa e non prestava il diametro migliore.
E’ una tendenza abbastanza comune negli ospedali della maggior parte dei Paesi industrializzati quella di chiedere strenuamente alla donna in travaglio di spingere non appena abbia raggiunto la dilatazione completa. […] Non esiste un’urgenza corporea più pressante che quella delle contrazioni uterine che spingono il bambino nel canale del parto una volta che la cervice è completamente dilatata. (Ina May Gaskin, La gioia del parto)
In caso di parto distocico
Il parto è “eutocico” o “fisiologico” se avviene spontaneamente (servono solo le mani dell’ostetrica); “distocico” o “non fisiologico” se è necessario l’intervento di altri strumenti:
- La ventosa è uno strumento utilizzato quando esistono ostacoli alla progressione spontanea del feto, per accelerare o facilitare la fuoriuscita della testa. La tecnica prevede l’applicazione del cappuccio in un punto specifico della testa fetale. Se la coppa si stacca perché perde tenuta sulla testa fetale, può essere riattaccata: se succede non bisogna quindi pensare che qualcosa sta andando storto. Il suo utilizzo non è infrequente, infatti a Novara è presente in tutte le sale parto. È necessario però che ci sia collaborazione da parte della donna, per questo è importante essere consapevoli di cosa si tratta. Il neonato può presentare un innocuo gonfiore nel punto di applicazione della ventosa, che però passa.
- Il forcipe è una pinza di metallo della forma e grandezza di un cucchiaio che viene inserita in vagina e posizionata intorno alla testa del bambino per estrarlo nei parti difficili. Un tempo veniva utilizzato per ridurre le dimensioni della testa, ora invece solo per accompagnamento. Il suo utilizzo è più raro, a Novara è infatti presente in 1 sala su 4. In caso di utilizzo, però, è sempre fondamentale la collaborazione materna.
In caso di parto operativo, ovvero quando nella fase espulsiva si ricorre agli strumenti elencati sopra, entrano in sala parto molte persone (neonatologo, pediatra, ecc.).
Inoltre, è più probabile che venga praticata l’episiotomia, cioè il taglio del perineo. Si tratta di un taglio piccolo, suturato poi ben stretto a strati (spesso in questa fase la neo-mamma si dimostra molto insofferente). Mentre fino a non molti anni fa l’episiotomia veniva considerata una pratica di routine in sala parto, oggi le principali autorità scientifiche e sanitarie ritengono che debba essere usata solo in pochi casi selezionati, altrimenti può diventare addirittura dannosa. Un’inchiesta realizzata del 2013 da Repubblica traccia una situazione a macchia di leopardo in Italia, con alcuni centri che hanno tassi di episiotomia molto bassi (3%) e altri che hanno tassi altissimi (80%): a Novara siamo sul 15%. In assenza di episiotomia, il genitale potrebbe rimanere integro o, più facilmente soprattutto al primo figlio, potrebbe esservi una lacerazione.
L’ultima fase: l’espulsione della placenta
L’ultima fase del parto è detta secondamento , ovvero l’espulsione della placenta, che segue, dopo una pausa di alcuni minuti (in media 20, ma può occorrere anche un’ora senza che ciò evidenzi una patologia), la nascita del bambino.
Mentre il neonato succhia al seno o riposa sul ventre materno, le contrazioni (non dolorose) riprendono, fino a staccare la placenta dal fondo dell’utero e espellerla.
Dopo l’espulsione della placenta, l’utero si contrae e si viene a formare il cosiddetto globo di sicurezza che, come un laccio emostatico, impedisce che la madre si dissangui.
Spesso ci si augura un parto veloce; in realtà, se per il suo espletamento (ovvero dalla prima contrazione all’espulsione della placenta) passano meno di 5 ore, il parto viene considerato distocico: potrebbero esservi associati problemi materni o del bambino.
Il post partum
Il bambino appena nasce ha freddo: potrebbe percepire una temperatura reale di 20 °C come quella che per noi è una temperatura di 0 °C. Per questo viene immediatamente posto sul petto della mamma, che lo aiuta a mantenere costante la sua temperatura. Il contatto pelle a pelle facilita anche una precoce comunicazione tra il bambino e la mamma.
Dopo l’espulsione del feto, gli ormoni aumentano, ma dosati in maniera diversa rispetto all’assetto del travaglio; si ha un picco a 30 minuti dalla nascita e la stessa cosa avviene al bambino: sono gli ormoni dell’innamoramento (gli stessi rilasciati, in dosi diverse, durante un rapporto sessuale). Ecco perché bisogna tenere il neonato vicino e non esporlo troppo presto.
Dopo le 2 ore in sala parto, quando si va in camera, è importante provare subito a fare la pipì: deve esserci un flusso normale, altrimenti potrebbe servire il catetere.
Un punto di attenzione: dopo il parto, per rieducare il perineo, vengono spesso suggeriti esercizi come il “pipì stop”, ovvero cercare di arrestare il flusso di urina a metà e poi avviarlo di nuovo. In realtà, il pipì stop è solo uno screening di incontinenza, cui la gravidanza predispone: quando si trattiene, lo sfintere deve tenere e non si deve perdere pipì; altrimenti, è consigliabile fare una visita specifica (a Novara le fanno al San Giuliano). Per prevenire l’incontinenza, è importante bere molto e avere cura del perineo non praticando eccessivamente sport che sollecitano il basso ventre (come la corsa, lo step, le arti marziali, l’aerobica, il trampolino, il basket, la pallavolo). Occorrono un paio di mesi per rieducare il piano perineale dopo il parto, prima dei quali è sconsigliato far lavorare gli addominali, che sono muscoli antagonisti (ovvero lavorano all’opposto).
Una volta avuto Edoardo addosso, avrei voluto che tutto il mondo al di fuori della nostra famiglia scomparisse. Invece mi si chiedeva di spingere ancora per far uscire la placenta e più fastidioso ancora fu il momento della sutura, quando dovettero bloccarmi le gambe per evitare che di riflesso le chiudessi; ebbi una lacerazione di I grado che mi lasciò indolenzita per qualche giorno, ma di cui ora non sento traccia. Edoardo e io stemmo cuore a cuore per circa due ore. Io continuavo a piangere e gli altri chiedevano a Leonardo come mai; non era un pianto incontrollabile, ma io avevo deciso di farlo uscire perché liberatorio: della fatica che mi aveva portato allo stremo e della felicità di cui mi ero riempita. Continuai ad abbracciarlo, accarezzarlo, scaldarlo e scrutarlo e sentii un amore infinito, un momento di estasi e perfezione. Verso le 17 Edoardo fu portato in un’altra stanza insieme al papà per essere lavato e vestito, mentre io venivo ripulita da una OSS e messa contro la mia volontà su una sedia a rotelle per evitare che, sopravvalutando le mie forze, potessi svenire. Edoardo varcò così nella sua culletta quella porta da cui era entrato dentro di me e che ora lo introduceva nella società come individuo a se stante. Mi spiace un po’ aver risposto, alle persone che mi hanno domandato com’è andato il parto nelle ore immediatamente successive, che è stata un’esperienza “sovrumana”, perché per chi non la vive quella è una connotazione negativa, mentre la mia rielaborazione, da lì a poco tempo, mi ha portata (al di là degli aspetti meno naturali come la rottura delle membrane, l’ossitocina, le spinte forzate – aspetti che sicuramente valuterò più consapevolmente in futuro) a vederlo come un momento magico, super emozionante e da ripetere.
Una risposta a "Travaglio e parto: info del corso ed esperienza personale"