
“Dalla culla alla culla” è un saggio del 2002 che parla di tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo. Quella che ho letto è la seconda edizione italiana del 2013.
Una questione di progettazione
Gli autori partono con una critica alla rivoluzione industriale: nonostante abbia apportato cambiamenti sociali positivi, il progetto generale conteneva in sé alcuni difetti sostanziali.
Le industrie moderne seguono ancora il paradigma allora sviluppato, lineare e a senso unico: prodotti che vanno dalla culla alla tomba (della discarica).
Anche movimenti che alla rivoluzione industriale avrebbero dovuto opporsi hanno finito con l’incorporarne i difetti, come la spinta a ricercare soluzioni universali, tipicamente progettate per funzionare nella peggiore delle condizioni e non adattate ai contesti locali.
Si utilizza la forza bruta per cercare di sopraffare la natura, trattando la diversità come una minaccia. In agricoltura, ad esempio, questo tipo di paradigma ha portato a una coltura di monocolture: per aumentare la produttività delle piante più profittevoli, ne vengono estirpate altre che invece avrebbero un effetto benefico sull’ecosistema; anche se il profitto è in crescita, la qualità complessiva del sistema crolla.
Non si può infatti considerare l’attività economica come unica misura del progresso, trascurando gli effetti a lungo termine sull’ecosistema.
Se l’umanità non fa qualcosa per cambiare, si rende complice di una strategia della tragedia. A questa, possiamo contrapporre una strategia del cambiamento.

Perché “limitare i danni” non è un bene
La soluzione proposta negli ultimi decenni è stata l’ecoefficienza, basata su quattro R da cui gli autori mettono in guarda:
- Ridurre la produzione, le emissioni, i materiali: questo rallenta la distruzione, ma non è una strategia vincente nel lungo periodo.
- Riutilizzare i rifiuti: a meno che un materiale sia stato specificamente progettato per trasformarsi in nutrimento per la natura, però, compostarlo potrebbe essere perfino nocivo.
- Riciclare: solo perché un materiale è riciclato non è automaticamente “buono” dal punto di vista ecologico; il più delle volte si tratta in realtà di subciclaggio, che riduce la qualità dei materiali e aumenta la contaminazione della biosfera.
- Regolamentare: le industrie sono costrette ad attenersi alle normative, ma queste sono in fondo un segnale di fallimento a livello di progettazione, perché è come se rilasciassero la licenza di danneggiare entro certi limiti.
L’efficienza dunque non è positiva di per sé, ma dipende dalla qualità del sistema cui è applicata: se l’industria è in larga parte distruttiva, essere efficiente è anche peggio. Questa strategia ha avuto il merito di lanciare messaggi di interesse ambientale e di avviare ricerche, ma si è concentrata solo su cosa non fare, senza formulare risposte positive.

L’ecoefficacia
La proposta positiva degli autori è l’ecoefficacia, ovvero lavorare sulle cose giuste, invece di limitare i danni provocati da quelle sbagliate: il bello è che di queste cose ce ne vogliono sempre di più, non sempre di meno.
Mentre in natura la crescita è vista come qualcosa di straordinario e salutare, la crescita industriale è sotto accusa. Ma la chiave non è, come propongono i fautori dell’efficienza, ridurre le industrie e i sistemi umani, bensì progettarli in modo che diventino migliori, arricchendo il resto del mondo.
Gli autori suggeriscono dunque un nuovo tipo di progettazione che, invece di perfezionare l’attuale sistema distruttivo, miri a creare un mondo di abbondanza.

Rifiuti uguale cibo
La natura opera secondo un sistema in cui non esistono rifiuti: tutto diventa cibo, in un ciclo che ha tenuto in vita il Pianeta per milioni di anni.
Invece, da quando nuovi materiali sintetici ed economici hanno invaso il mercato, per le industrie è diventato più conveniente produrre da zero: i beni “usa e getta” sono diventati la norma.
Ma il sistema in cui viviamo è chiuso, e i suoi elementi finiti: se desideriamo conservarlo, dobbiamo imparare a imitare la natura, progettando tutto in base al principio che il rifiuto non esiste. Per fare ciò, dobbiamo considerare la presenza di due metabolismi: biologico e tecnico.
Un nutriente biologico è un materiale progettato per ritornare nel ciclo biologico, per essere letteralmente consumato dai microrganismi.
Un nutriente tecnico è un materiale progettato per ritornare nel ciclo tecnico, per essere sovraciclato.
A tal fine, gli autori propongono di passare dalla vendita di prodotti alla vendita di servizi: il cliente acquisterebbe non l’oggetto, bensì un determinato periodo di utilizzo.
Le aziende dovrebbero occuparsi di ritirare i rifiuti attuali, sottraendo gli “invendibili” (materiali che non possono entrare in nessuno dei due metabolismi perché contengono sostanze pericolose) e reinserendo nel ciclo industriale i nutrienti tecnici.

Rispettare la diversità
All’interno degli ecosistemi naturali, la diversità porta forza.
Per l’uomo, rispettare la diversità significa condurre le proprie attività favorendo un ricco scambio con il luogo in cui si trova.
Significa scegliere materiali locali, spianando la strada alla nascita di proficue imprese sul posto e scongiurando il rischio della bioinvasione.
Significa privilegiare fonti di energia naturali, come il sole e il vento, e creare sistemi ibridi capaci di far fronte ai picchi di utilizzo sfruttando efficacemente le risorse locali.
Significa progettare un oggetto considerandone i diversi possibili utilizzi e utilizzatori, e svilupparlo localmente per tener conto del gusto estetico e delle necessità del contesto.
Significa ampliare la prospettiva delle indagini di mercato, abbracciando una gamma più vasta di contesti ecologici e sociali, e un lasso di tempo più lungo.
Anziché concentrarsi su un unico “ismo” (ovvero una posizione estrema, come è anche l’ecologismo), gli autori propongono di utilizzare una diversità di criteri: l’ecoefficacia intende conciliare ecologia, economia ed equità.
Anche i fautori dello “sviluppo sostenibile” ricorrono a questa triple bottom line, ma spesso è l’economia ad avere un peso maggiore in fase di progettazione.
Un progetto che rispetti la diversità a tutti i livelli conduce a un processo di “ri-evoluzione industriale“.
Mettere in pratica l’ecoefficacia
Gli autori propongono cinque passi…
- liberarsi dei colpevoli, ovvero le sostanze pericolose;
- informarsi e scegliere in base alle preferenze personali, privilegiando l’intelligenza ecologica, il rispetto e il piacere;
- creare la lista dei materiali, distinguendo le sostanze più problematiche, le sostanze da eliminare con meno urgenza e le sostanze sicure;
- attivare la lista positiva, in modo che il prodotto sia progettato fin dall’inizio per alimentare il metabolismo biologico o tecnico;
- reinventare, ovvero far evolvere il prodotto cercando di superarne i limiti e di soddisfare le necessità umane in un contesto che cambia.
…e cinque principi guida:
- segnalare la propria intenzione: gli obiettivi devono essere chiari, per ridurre le resistenze e condividere i valori, oltre che l’operatività;
- restituire, ovvero battersi per una crescita buona, non solo per una crescita economica;
- essere pronti a spingersi ancora oltre: bisogna saper anticipare i segnali di cambiamento che vengono dall’esterno, invece di subirli;
- capire e prepararsi per la curva d’apprendimento: se tutte le risorse sono impiegate in operazioni basilari, non ci sarà margine per la sperimentazione;
- assumersi responsabilità intergenerazionali, ovvero immaginare come sarà in futuro un mondo di prosperità e cominciare a progettarlo adesso.
Commenti personali
Essendo il libro un po’ datato, mi sono domandata se fosse ancora attuale. Ho googlato a lungo, ho partecipato a incontri sull’economia circolare e ho concluso che sì, è assolutamente attuale. Sono decenni che se ne parla, eppure il C2C non ha trovato applicazione su larga scala. E’ davvero la soluzione, o è diventato un marchio per vendere bollini verdi? E, se è davvero la soluzione, può avere un impatto attraverso le iniziative delle singole organizzazioni, o è necessario che vi sia un intervento politico forte? Probabilmente il saggio manca di un po’ di concretezza nell’elaborare una visione strategica su come implementare la logica proposta in maniera massiva.
Da non esperta in materia, un altro punto che mi lascia un po’ perplessa – per il suo eccessivo ottimismo – è la proposta del C2C come soluzione all’eterno conflitto tra crescita economica e tutela ambientale, arrivando ad auspicare un’attività umana sempre più intensa e comunque con impatto positivo sul contesto. Io credo che sia sano promuovere una maggiore sobrietà nei consumi, sia per spostare il peso dall’apparenza delle cose all’essenza dei valori, sia perché – per quanto le materie prime possano continuamente essere rimesse in circolo senza impoverire ulteriormente la Terra – c’è comunque un impiego di energia da considerare che deve essere giustificato.
Lo spunto davvero illuminante e condivisibile, secondo me, è il passaggio dalla vendita di prodotti alla vendita di servizi: mantenendo la proprietà del bene nelle mani delle aziende, infatti, rimane loro anche il dovere – e l’interesse – a gestirne il fine vita recuperandone i componenti. E così dev’essere, dal momento che il “consumatore” non può avere né le competenze tecniche né l’onere di dismettere prodotti che non ha contribuito a progettare: le decisioni dei produttori e la responsabilità delle loro conseguenze devono essere il più possibile vicine. E’ proprio dalla progettazione che bisogna dunque ripartire: essa deve essere creativa, lungimirante e basata su un nuovo modello di ricavi.